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POLITICA

Soppressione di Province e piccoli comuni: quale l’effettivo risparmio

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L’articolo che riproduciamo in seguito è stato di recente pubblicato sul sito di Democrazia e Legalità ed è di un’attualità stringente anche in chiave sannita, visto che in questi ultimi giorni il dibattito sulla soppressione della Provincia di Benevento ha elevato toni e salutata ampia partecipazione non solo istituzionale. La ricostruzione dei costi dell’ente provincia portata ad esempio nel testo (l’amministrazione di Pistoia), fra l’altro, è quasi sovrapponibile a quella effettuabile per la Rocca dei Rettori, perché le due aree differiscono per numero di abitanti solo di poche migliaia di unità.

***

(marco ottanelli) – Affrontiamo, vista la complessità e la vastità della manovra economica d’agosto, un settore particolare della stessa: la soppressione delle province sotto i 300 mila abitanti e dalla soppressione dei piccoli (piccolissimi!) comuni, quelli aventi fino a 1000 residenti, argomento che a quanto pare ha suscitato un dibattito più acceso delle altre componenti del provvedimento.

La questione delle province, e della loro abolizione, agita il mondo politico fin dal 1970, anno della istituzione delle Regioni. Solo che da allora, mentre tutti i partiti invocavano ed ancora invocano la loro sparizione, le province sono passate da 94 alle attuali 110, in un crescendo di frazionamento del territorio e delle popolazioni ed in un contemporaneo sempre minor significato e potenzialità per le province di ultima istituzione, che sono appena qualcosa di paragonabile a piccoli consorzi tra comuni.

La loro vera funzione anzi, in un periodo nel quale indubbiamente le capacità di movimento, controllo e copertura tecnologica avanzano a ritmi incalzanti, e nel quale lo snellimento della burocrazia è parte essenziale dello sviluppo, la loro vera funzione, dicevamo, è stata palesemente quella di moltiplicare apparati amministravo-burocratici (appunto) e soprattutto politico-partitici. Sfidiamo chiunque a dimostrare il contrario. Ci troviamo quindi, oggi, province che vanno dai più di quattro milioni di abitanti (quella di Roma) fino a quelle, come l’Ogliastra, che, con i suoi 57 mila abitanti, si colloca molto al di sotto di un quartiere di un capoluogo medio. E se la provincia di Bolzano copre più di 7.000 km2, ben cinque province (Gorizia, Monza, Prato e Trieste) amministrano meno di 500 km2.

Occorre quindi farsi una serie di domande su “le province” che potrebbero essere le seguenti:

sono esse necessarie/importanti/utili?
fino a quale punto delle curve popolazione-dimensioni la loro necessità/importanza/utilità ha un senso?
quanto costano, attualmente, e quale risparmio comporterà la soppressione di quelle previste dal decreto del Governo?

La prima questione può trovare risposta in un insieme di considerazioni costituzionali e di contingenza amministrativa. Le province sono previste in Costituzione. Questo ne fa, dunque, una parte costituente della Repubblica, come ribadito nel nuovo art. 114. E, in quanto tali, sono dunque una parte “necessaria”. Abolirle nel senso di eliminarne la funzione sarebbe, a nostro avviso, un errore di valutazione, visto che (e qua si tocca l’aspetto “contingenza”) ci sono in effetti piani -sovracomunali e sottoregionali- nei quali le province hanno una certa capacità gestionale che merita attenzione. Si pensi alle strade di media percorrenza (provinciali, appunto), o ai corsi d’acqua , o alle bonifiche, o alla gestione dei rifiuti e delle discariche.

Tutto questo, però, ha senso solo se le province hanno una determinata estensione ed una determinata popolazione. E quindi affrontiamo la seconda questione. Ovvio che una provincia troppo piccola non potrà mai amministrare, gestire, governare fiumi, laghi, discariche e trattamento dei rifiuti. E non avrà mai i fondi sufficienti per costruire, curare, gestire strade, superstrade, opere pubbliche, quindi peserà sulle spalle della regione (quindi delle altre province) e/o dello Stato, pur continuando a prendere decisioni autonome. Decisioni che graveranno su bilanci non propri. È per ciò che il buonsenso dovrebbe accogliere con estremo favore l’eliminazione almeno delle piccole province, perchè esse hanno un costo superiore alla loro effettiva utilità.

Per sapere quanto costano, e quindi quanto verremo a risparmiare se il piano del governo avrà seguito, si devono prendere in considerazione molti parametri. Il primo è quello della suddivisione tra costi politici, partitici e di “governo” da una parte, e costi di pura amministrazione e burocrazia dall’altra.

Fermo restando che nessun impiegato sarà licenziato, che nessun ufficio sarà chiuso, che nessun reparto sarà smantellato, quando si parla di “abolire le province” si parla solo di non rinnovare più la parte puramente politica: quindi, niente elezioni, niente consiglio, niente giunta e niente presidente.

Prendiamo, a titolo d’esempio, i dati della provincia di Pistoia. La cifra lorda di spesa per le indennità, sia degli assessori che del Presidente della Provincia e del presidente del Consiglio provinciale è di 534.963,96 euro annui, esclusa ogni altra spesa di funzionamento. Cioè circa 2,6 milioni di euro in 5 anni per mantenere la giunta. In particolare, il presidente della Provincia percepisce un’indennità di 75.299,40 euro l’anno (6.274,95 al mese), 56.474,52 euro l’anno (4.706,21 al mese) vanno invece al vicepresidente, mentre gli altri sette assessori percepiscono ciascuno 48.944,64 euro l’anno (4.078,72 al mese), così come il presidente del Consiglio.

I restanti 23 consiglieri eletti percepiscono un gettone di presenza per ogni seduta di Consiglio o commissione, per un massimo (dice la legge finanziaria del 2008) di un quarto di quanto percepito dal Presidente della provincia stessa, cioè, un questo caso, 18.824,85 euro l’anno.

Sommando tutte le voci, siamo ad un costo dell’apparato politico di circa 956.000 euro di sole indennità (o gettoni di presenza)

Ci sono poi i costi non degli individui, ma dei gruppi consiliari, i quali (come dice, all’ art. 47, lo Statuto della nostra provincia-campione di Pistoia) hanno diritto alla attribuzione di risorse, strutture e servizi adeguati. Il bilancio del 2010 metteva globalmente loro a disposizione 25.678 €

Ovviamente questa cifra è solo una parte del tutto. Ad essa vanno sommate le spese d’ufficio di ogni singolo consigliere ed assessore; quelle di rappresentanza; le indennità di trasferimento; i rimborsi telefonici (per un totale, secondo i nostri calcoli, di 7.020 € l’anno) e “tutto quanto fa politico”, dalle segreterie, ai portavoce, agli uffici stampa, alle auto di servizio e alle altre voci che diventano quasi inelencabili.

Siamo comunque abbondantemente sopra il milione di euro. Tenendo conto che il disavanzo di questa provincia toscana è di un 1 milione e 700 mila euro, non è azzardato ipotizzare che la eliminazione dell’apparato politico-partitico, fermo restando tutto quello amministrativo-burocratico, sarebbe una importantissima boccata d’ossigeno per l’ente e per gli abitanti dello stesso.

C’è poi il costo delle elezioni, che, per quanto quinquennale, è sicuramente gravoso: campagne elettorali, manifesti e poster, invio a prezzi agevolati di materiale informativo, la costituzione dei seggi, le schede, le urne, lo spoglio, e, soprattutto, il rimborso spettante ai partiti! Tutte queste spese sono sostenute non direttamente dalla Provincia, salvo una parte, ma dallo Stato, tramite un fondo istituito dalla legge 62/2002, e dalla Regione. È come dire che per ogni provincia che vada al voto o al ballottaggio, saranno tutti i cittadini italiani a pagare.

L’accorpamento delle piccole province non azzererebbe certo questa voce (per esempio, il rimborso ai partiti, calcolato sul numero degli aventi diritto, sarebbe trasferito al nuovo ente), ma sicuramente ne abbatterebbe la dimensione, essendoci meno candidati, meno comitati locali, meno ballottaggi e meno turni elettorali in genere.

Al termine di questo difficile excursus di cifre, numeri e somme, possiamo dire che, sempre tenendo conto dei parametri di Pistoia, e azzardando alcuni arrotondamenti, essa, nella sua componente politica, costa circa 1 milione e 300 mila euro l’anno. Il che è circa un terzo di tutto il suo bilancio.

Alla luce di questo dato, essa appare una spesa sicuramente esagerata, che merita di essere assolutamente contenuta.

Se il costo, come da noi calcolato, fosse uguale in tutte le 29 piccole province in via di abrogazione, quindi, gli italiani risparmierebbero più o meno 38 milioni di euro all’anno. Una cifra piuttosto ridotta rispetto ai 43 miliardi della manovra d’emergenza di questo agosto 2011 ma che nel lungo periodo può diventare un risparmio notevole.

Ma soprattutto, come abbiamo detto precedentemente, è l’effetto di efficienza, efficacia e semplificazione amministrativa, nonché di riduzione della parcellizzazione territoriale, che va valutato con attenzione: la eliminazione di enti troppo ristretti, troppo piccoli, troppo deboli, non può che avere un effetto estremamente positivo su tutti i piani economici e finanziari (si pensi solo alla differenza burocratica nel costruire una strada che attraversi una sola provincia, rispetto ad una che ne attraversi tre, con tutto il carico di permessi, bandi, licenze, bilanci, controlli, bolli e timbri che ne consegue, nonché, forse soprattutto, con tutto il carico di scelte politiche ideologizzate, interessate, talvolta paralizzanti perché in aperto contrasto o concorrenza l’una con l’altra)

Tutto quanto finora affermato, vale a maggior ragione, per i piccoli comuni, quelle anacronistiche ed insensate minuscole comunità di meno di mille abitanti che hanno un sindaco, una giunta, un consiglio comunale e che governano territori spesso delicatissimi con una miriade ormai insostenibile di atti, delibere, licenze e spese conseguenti che rendono il nostro Paese un puzzle di ben 8092 comuni, la stragrande maggioranza dei quali (addirittura 7592!) ha meno di 15.000 abitanti.

Una follia che trova ormai giustificazione solo in una romantica e clientelare prosopopea retorica della “storia, tradizione, cultura” locale, una barzelletta agli occhi del mondo. Il quale si presume si sganasci letteralmente quando apprende che i comuni sotto i 1000 abitanti (quelli che dovrebbero essere soppressi con questa manovra) sono la bellezza di 1970 assommando quindi al 24% del totale!!

Ci sono 1970 sindaci, 3940 assessori e 9850 consiglieri in carica per amministrare questa miriade di comunelli, e ognuno di essi con la sua delibera in tasca, il suo emendamento al bilancio pronto, la sua idea da votare, la sua modifica al piano urbanistico e la sua propria volontà edilizia. Ci dispiace essere così duri, ma nulla, né l’isolamento geografico, né la peculiarità di un luogo, né la locale sagra della salsiccia potranno mai giustificare i confini amministrativi e le riserve indiane partitiche, con potestà decisionale autonoma, insindacabile e definitiva, a paesini di 70-100 persone (paesini quasi tutti alpestri ) o poco più.

La parata di Primi Cittadini con tanto di fascia tricolore che sta affollando in questi giorni televisioni, radio, giornali, ognuno con la sua lamentazione, ognuno con la sua richiesta specifica di riconoscimento di insostituibilità, ognuno con la sua elencazione della propria necessaria ineluttabilità, parata che dovrebbe essere al servizio dell’onore del sacro Comune, appare piuttosto come una sfilata assai poco dignitosa in difesa di interessi particolari e di localismi fastidiosi e arretrati così come consolidati in un conservatorismo feudale. Non solo: ancor più irritante e poco dignitosa è la presa di posizione di certi grandi partiti organizzati in difesa di queste minuscole realtà, difesa spacciata come baluardo della tradizione, e che in trasparenza svela invece la volontà di preservare una immensa quota di funzionari, elementi istituzionali di sicura fede di partito, di poltrone da assegnare, distribuire, regalare, di posti da coprire per a loro volta coprire, in tal modo, ogni possibile angolo, fisico e amministrativo-burocratico, di questa Nazione. E tanto più il partito è organizzato, tanto più forte è, in queste giornate, la sua protesta, tanto meno credibile essa appare.

Non si pensi però che la soppressione dei comunelli sia indenne dal viziaccio italiano della eccezione, della deroga, del comma ad hoc: tra piagnistei, ricatti e idee assurde ma rumorose, i paladini della frammentazione hanno già ottenuto una serie di provvedimenti che dovrebbero “salvare” circa un terzo degli enti sotto i 1000 abitanti, salvare la carica di sindaco (trasformandolo in rappresentante locale), la sede comunale (tanto, paga Pantalone) ed altri ammennicoli relativi.

In conclusione, per quanto le funzioni di Province e Comuni siano importanti, utili, sensate, necessarie, e previste e descritte in Costituzione, per cui la eliminazione tout court delle stesse (e dell’Ente Provincia in particolare) sia impensabile, ci pare di poter concludere che una operazione non solo di mero risparmio, ma di razionalizzazione possa e debba passare attraverso la riduzione numerica di quegli enti, intervenendo sui più piccoli e sui più inefficienti prima che su altri.

 

 

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