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Storie beneventane – Le tradizioni in città dalla Domenica delle Palme alla festa di Pasqua

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Pasqua è forse una delle poche festività cristiane che non ha una data fissa, può essere a fine aprile arrivando “alta” o a fine marzo e arrivare “bassa”, distinzione che per noi bambini non era facile da decifrare, perciò eravamo attentissimi a riconoscere quei segnali che ci rivelavano il suo approssimarsi.

Il primo indizio si aveva il sabato prima della Domenica delle Palme: mia nonna tagliava dei ramoscelli di ulivo che il giorno successivo avrebbe portato a benedire nella piccola chiesetta della nostra contrada, per poi scambiarseli con i vicini come gesto di pace. La mattina della Domenica delle Palme c’era l’usanza di andare a fare gli auguri ai Padrini (‘U Patin’ e ‘a Patin’di battesimo o di cresima) portando loro la palma benedetta e questi in cambio per gratitudine del gesto ricevuto regalavano sempre dei soldi accompagnati da “U PIZZ PANAR”, un dolce tipico beneventano del periodo pasquale. E’ preparato con pan di spagna coperto di “naspro” , aromatizzato all’anice e ricoperto di confettini colorati che simboleggiano i colori della primavera. La forma tonda e bassa lo fa somigliare ad una pizza, da qui “u pizz” e poiché per portalo a casa veniva riposto in un cestino di vimini, ‘u panar’, veniva chiamato: Pizzopanaro.

A pranzo si cucinava quasi sempre pasta al sugo e agnello arrostito. Una cosa che ricordo molto bene è che mio nonno aveva l’abitudine di grattugiare le “Ntride” (nocciole abbrustolite) sulla pasta.

Un altro segnale dell’approssimarsi delle festività pasquali, era il germogliare del grano, piantato 40 giorni prima in piccoli vasi di terracotta e tenuto al buio. Le spighe diventavano giallo intenso e il giovedì santo si portavano in chiesa, che essendo molto piccola, non riusciva a contenerle tutte e quindi all’interno restavano solo le più belle e le altre venivano sistemate all’esterno.

A Benevento città, il Giovedì Santo era il giorno dello “Struscio”, infatti erano così tante le persone che si recavano a visitare le chiese, per vedere i sepolcri, che si camminava strusciando i piedi per terra. Le chiese da visitare erano almeno tre, in sequenza, ma potevano essere anche cinque o sette, sempre in numero dispari.

Il Venerdì Santo le donne in cucina davano inizio ai preparativi delle pietanze tradizionali ancora prima dell’alba, dal mio letto sentivo un continuo andirivieni di persone affaccendate e il loro vociare era un dolce allarme che qualcosa di interessante stava per accadere. Infatti verso metà giornata, mia nonna e mia madre, tutte infarinate, tiravano fuori dalla bocca infuocata del forno delle vere e proprie meraviglie gastronomiche: pastiere di grano e di riso, freselle, casatielli, fino alla mia preferita, un connubio di delizie, un insieme armonico di pasta, salsicce e formaggi: un tripudio di odori e sapori unici al mondo, ” ‘A Pizza Chiena”.

In Città, nel giorno del venerdì santo, ancora oggi è usanza, fare la Processione del Cristo morto, ma fino agli anni ’30 le processioni erano due, una composta da soli uomini che seguivano il Cristo morto, e una composta da sole donne che seguivano la Madonna. Ambedue si snodavano per le strade della Città, ma avevano itinerari diversi e rappresentavano la Madre che andava alla disperata ricerca del Figlio morto in croce. L’incontro delle due processioni avveniva a piazza Orsini, dove finalmente la Madonna poteva riabbracciare e piangere suo Figlio morto crocifisso.

La domenica di Pasqua la sveglia era molto presto, già di primo mattino l’odore delle pastiere si mescolava a quello del sugo che “pippiava” non so da quanto tempo e, sempre dal mio letto, udivo l’inconfondibile rumore del matterello sul tavolino in legno a dimostrazione che qualcuno stava preparando la pasta in casa. Ad una certa ora della mattinata il suono delle campane festose della resurrezione attirava tutte le persone fuori: grandi e piccoli.

Tra il vocìo e il rintocco armonioso delle campane, sembrava che anche le rondini in volo, con il loro cinguettio, partecipassero all’evento gioioso. Dopo poco tempo ci aspettava il tradizionale pranzo pasquale, composto, oltre dalla pasta fatta in casa e dall’agnello arrostito, da tutte quelle pietanze preparate nei giorni precedenti. Intanto già pensavo alla rituale scampagnata che il giorno dopo, il lunedì in albis insieme ad i miei amici, avrei fatto nelle campagne vicine.

Pasqua per noi ragazzini era molto importante, perché era il segnale che si stava avvicinando l’estate e quindi che la scuola presto sarebbe giunta al termine, ponendo fine a quella che per me significava una sorta di reclusione, avendo sempre vissuto la mia giovane vita, fra la natura e nei campi, magari fra mille privazioni, ma felice e completamente padrone di me stesso.

 

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