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Comunali, il vero avversario è il partito dell’astensionismo: quanto più silenzioso tanto più temuto e tenuto a distanza

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Ci si affanna ormai da settimane, da quando, cioè, è iniziata la campagna elettorale a parlare di necessità di intercettare consensi e dei criteri per raggiungere l’obiettivo agognato dai candidati a sindaco.

C’è chi si orienta ad allargare gli orizzonti, componendo liste e integrandole nella coalizione di cui è a capo, come ha sempre manifestato il candidato Luigi Diego Perifano di ApB; c’è chi, invece, prova a rimanere saldo sulla necessita di riaffermare l’identità valoriale e storica di un’area, come quella di centrodestra, che, però, proprio sulla scelta del candidato sindaco che incarni quella identità e su una perseguita e difficilmente raggiungibile alleanza evocatrice, ha trovato forti complessità. C’è chi, invece, come il candidato sindaco di ArCo, Angelo Moretti,  alza la bandiera della rivoluzione gentile e del rinnovamento dal basso per costruire e ricostruire la fiducia tra gli elettori. 

Unanimemente il traguardo è essere alternativi al sindaco uscente Clemente Mastella, che, invece, cerca di capitalizzare questi cinque anni provando a recuperare  nell’ultimo scorcio di consiliatura alcune progettualità indicate nel programma elettorale, che la dichiarazione di dissesto finanziario prima e la pandemia poi avrebbero impedito di vedere completamente concretizzate. Perché è con i fatti compiuti che si ripresenterà agli elettori – come ha fatto intendere più volte –  indicando come “suoi avversari i problemi della città.”

La prima battaglia, dunque, è quella di trovare seguito tra i cittadini elettori. Il  secondo tema, di cui, in verità si parla poco – ma, questa, è una questione che non riguarda solo Benevento – è quella relativa a riabilitare l’attenzione e l’interesse alle vicende politiche gli elettori non elettori.

Ovvero di quella fetta di cittadini, che pur avendo diritto al voto, scelgono di non recarsi alle urne: ed è una fetta di popolazione elettorale consistente che cresce e si diversifica nel tempo diventando il tallone di Achille di ogni appuntamento elettorale.

Qualche studioso di marketing politico sostiene che forse l’astensione elevata consente con maggiore facilità un risultato migliore in termini di strategie di posizionamento e di mobilitazione del consenso: in poche parole, conviene più operare per sottrarre voti agli avversari, intercettando il favore del cosiddetto elettore fedele alle urne, piuttosto che promuovere azioni per riguadagnare il consenso e motivare la partecipazione di un elettore che ha smesso di votare.

La ragione sarebbe da trovare nel fatto che un elettore non elettore ha connaturato in sé un atteggiamento critico, che, per quanto lo si possa rimotivare, può comunque comportarsi in maniera imprevedibile. 

L’astensionismo è un problema annoso, che non riguarda solo l’Italia ed è diventato sempre più diffuso e crescente, tanto che si è cominciato a parlare di “partito dell’astensionismo”, che ottiene altissime percentuali di “consenso”. 

Alcune fonti statistiche analizzano la caduta della partecipazione al voto in Europa  negli ultimi sessant’anni, dimostrano come il fenomeno si sia andato costantemente consolidando e come in Italia, in particolare, ha raggiunto picchi vertiginosi a partire dal 2000. Nel giro di poco più di vent’anni la partecipazione al voto ha fatto registrare un calo di oltre il 20%. 

Se si guardano i dati relativi all’affluenza al voto in occasione delle due ultime elezioni amministrative a Benevento, quella del 2016 e quella del 2011, si evidenzia una tendenza preoccupante: su un totale di 51.504 elettori nel 2016 al primo turno del 5 giugno si registra un’affluenza del 78,53%, mentre al ballottaggio svoltosi il 19 giugno – che vide competere Mastella e Del Vecchio –  si attesta solo al 58,68%. Nel giro di sole due settimane, la percentuale dei votanti è calata di circa il 20%. In questa tornata l’offerta politica era caratterizzata dalla presenza di sette candidati a sindaci e sedici liste. 

Il confronto con le elezioni comunali del 2011, quando gli aventi diritto al voto erano 52.297, mostra che i votanti –  che decretarono, come si ricorderà, già al primo turno la vittoria di Fausto Pepe –  erano stati 43.466, ovvero l’83,11 % degli aventi diritto. Questa volta il quadro politico che si offriva all’elettore tracciava la presenza di quattro candidati a sindaci e ventidue liste.

In pratica, nel giro di cinque anni anche al primo turno la mancata partecipazione al voto ha fatto registrare una variazione di circa il 5%. 

Prendendo in prestito le conclusioni a cui sono giunti diversi recenti studi sociologici, che guardano agli astensionisti come a “un tutto non omogeno”  e superano la tradizionale interpretazione del ‘non voto’ come associata alla delegittimazione delle istituzioni, alle caratteristiche socio-demografiche degli elettori astensionisti, all’apatia politica, “l’astensionismo viene ravvisato maggiormente nelle elezioni considerate di minore rilievo politico, come quelle comunali” e come una scelta consapevole, una forma nuovo di manifestazione del pensiero che esprime, in primo luogo, “dissenso e protesta per un’offerta politica difforme dalle aspettative e, quindi, deludente”;  in secondo luogo, un vero e proprio “consenso negato come esplicito rifiuto nei confronti di una classe politica, percepita come inaffidabile e dannosa.”

Un astensionismo di protesta, che, oltre ad essere “un indicatore della disaffezione verso una politica ritenuta inadeguata a recepire le richieste della società civile”, manifesta anche la problematicità dell’efficacia del voto stesso. 

Il dato interessante e allarmante al tempo stesso è costituito dal fatto che le nuove forme, anche fluide, di astensionismo toccano le fasce socialmente centrali dell’elettorato, ovvero giovani e mediamente e altamente istruite. E questo determina il rischio sempre più forte che l’elettorato passivo e l’elettorato attivo siano sempre più distanti e che a decidere di scendere in campo siano persone sempre meno rappresentative della popolazione, che siano sempre persone meno competenti e semplicemente attratti dalle fallacie del potere a prendere in mano le sorti del paese con le chiare conseguenze di un declino costante e irreversibile.

Non aiutanocerto ad attenuare o ad eliminare dal quadro politico-elettorale il fenomeno dell’astensionismo le crescenti e costanti diatribe interne ai partiti, che sembrano divenire sempre più destrutturati e fragili e incapaci di venire incontro alla domanda di partecipazione e alle esigenze quotidiane dei cittadini, non aiutano i continui cambi di casacca, non aiutano i crescenti personalismi del potere locale, non aiuta l’assenza di “scuole politiche” che formino nuova classe dirigente. 

Attraverso un’analisi delle funzioni latenti del cosiddetto  partito dell’astensionismo emerge, contrariamente a quanto possa sembrare, un’altissima richiesta alla politica e ai suoi rappresentanti di partecipazione e di coinvolgimento, ma a condizione che la politica ritrovi il suo ruolo originario di servizio, di impegno a rispondere ai bisogni dei cittadini e a rendere la città “la casa di tutti” dove nessuno si senta escluso o non ascoltato. E, dunque, forse, se si combattesse anche su questo fronte, la vittoria di ogni candidato starebbe piuttosto nel recupero in percentuale della fiducia di chi ha smesso votare.

Se è vero che soprattutto nelle elezioni amministrative l’elettore, rimanendo fedele al suo diritto-dovere di recarsi alle urne, sceglie più la persona che l’idea che sta dietro alla compagine dei candidati, è anche vero che proprio per questa stessa ragione sarebbe necessario che leader e candidati a sostegno valorizzassero questo orientamento provando a rispondere alla domanda di partecipazione e di soddisfacimento dei bisogni degli astensionisti. 

Forse solo così può realizzarsi una svolta concreta nelle dinamiche socio-politiche che finalmente vedrebbero la democrazia, quella sostanziale ed equa, riemergere e ritornare al suo corso.

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