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Provincia di Benevento

Bando Samte. il documento integrale di Sogesi srl

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Indirizzato alla SAMTE S.r.l.,a  Benevento, riportiamo di seguito la richiesta che la Sogesi srl ha formulato alla stazione appaltante perché ritiri il bando di gara per l’affidamento del servizio di raccolta porta a porta, trasporto e conferimento per il successivo recupero/smaltimento ed altri servizi, delle frazioni differenziate dei rifiuti solidi urbani ed assimilati prodotti nei comuni della provincia di Benevento (cig 3076256EBE).

***

"La Sogesi S.r.l. gestisce, con riconosciuta professionalità e competenza, il servizio di igiene urbana, raccolta rifiuti e raccolta differenziata porta a porta dei rifiuti solidi urbani presso molti Comuni del Beneventano e del Molise, secondo gli accordi contrattuali, le convenzioni e le autorizzazioni convenute con i predetti enti comunali, a seguito di regolare aggiudicazione di gare di appalto. La riconosciuta capacità imprenditoriale in un difficile settore quale quello in cui opera la ricorrente società è testimoniato dagli attestati e riconoscimenti rilasciati da tutti i Comuni nei quali opera detta azienda, con i quali si certifica che la stessa “ha assicurato in maniera continuativa, con diligenza, correttezza e serietà, lo svolgimento del servizio di Igiene Urbana”, secondo contratto. Non solo, nel caso del Comune di Montesarchio, sono oramai cinque anni consecutivi che l’azienda viene premiata (e con essa il Comune di Montesarchio, anche con un sostanzioso rientro di notevoli somme come comune riciclone) per il successo ottenuto nel riciclo della spazzatura, con circa il 70% di raccolta differenziata, creando tutta una struttura pubblicitaria a proprie spese che ha aiutato la popolazione ad inserirsi nel contesto della applicazione pedissequa della raccolta differenziata dei rifiuti, che tanto successo e plauso ha ottenuto, sia a livello sociale che politico. Ancora, la Sogesi è l’unica società del territorio operante nel settore della raccolta rifiuti ad essersi dotata di un codice a barre apposto alle buste, (che per il momento riguarda i rifiuti di carta, plastica ed alluminio, con l’intesa di estenderlo anche agli altri tipi di rifiuti) che consente di riscontrare comportamenti scorretti o non conformi di cittadini alle modalità di conferimento dei rifiuti, con notevole riduzione di aggravio di costi ed oneri per la stazione appaltante. Pertanto, la Sogesi S.r.l. ha certamente interesse a presentare istanza di autotutela alla stazione appaltante per il bando in oggetto.
In data 4 agosto 2011 la Sannio Ambiente e territorio (di seguito, Samte S.r.l.) ha pubblicato il bando in oggetto, per procedere alla cd provincializzazione della raccolta, recupero e smaltimento rifiuti della provincia di Benevento (ad esclusione della città di Benevento, decisione illegittima come si dirà di seguito), disponendo le regole per la partecipazione delle aziende interessate ad espletare il predetto servizio. Ebbene, le predette norme regolatrici del bando predisposto dalla Samte S.r.l. si rivelano essere del tutto contrarie alla attuale normativa vigente per l’espletamento degli appalti pubblici (Legge n.163/2006), predisposte in violazione dei requisiti richiedibili per la partecipazione a tale tipo di gara e contrarie ai principi che regolano le gare di appalto in tema di massima partecipazione dei concorrenti agli appalti ad evidenza pubblica, oltrechè lesive degli interessi dei cittadini che usufruiranno del detto servizio ad un costo più che triplicato, laddove venisse svolta ed assegnata la gara di appalto di cui all’oggetto.
Preliminarmente si eccepisce che nella fattispecie si rilevano i seguenti vizi:
a. Eccesso di potere per illogicità, palese irragionevolezza, arbitrarietà, mancata correlazione ad uno specifico interesse pubbblico, sviamento della causa tipica. Violazione del principio del giusto procedimento. Violazione del principio di proporzionalità. Violazione del principio di massima alle gare pubbliche;
b. Eccesso di potere per sviamento della causa tipica determinato da contraddittorietà, violazione del giusto procedimento e violazione del principio di proporzionalità;
c. Eccesso di potere per illogicità, palese irragionevolezza, arbitrarietà, mancata correlazione ad uno specifico interesse pubbblico, sviamento della causa tipica. Violazione del principio del giusto procedimento;
d. Violazione dei principi generali che regolano le procedure di evidenza pubblica. Violazione del principio di massima partecipazione alle gare pubbliche. Violazione degli artt. 2, 41 e 97 della Costituzione e dei principi comunitari in materia di concorrenza; difetto di motivazione ed irrazionalità manifesta.
Come affermato da costante giurisprudenza, le amministrazioni non possono introdurre nei bandi di gara prescrizioni che risultino non ragionevoli, avuto riguardo all’oggetto dell’appalto e alle sue caratteristiche particolari, ed in contrasto con i principi, di derivazione comunitaria ed immanenti nell’ordinamento nazionale, di ragionevolezza e proporzionalità, nonché di apertura alla concorrenza degli appalti pubblici. La giurisprudenza ha affermato che il potere discrezionale della stazione appaltante di prescrivere adeguati requisiti per la partecipazione alle gare per l’affidamento di appalti pubblici è soggetto a dei limiti connaturati alla funzione affidata alle clausole del bando, volte a prescrivere i requisiti speciali, funzione che consiste nel delineare, attraverso l’individuazione di specifici elementi sintomatici di capacità economica-finanziaria e tecnica, il profilo delle imprese che si presumono idonee sotto il profilo dell’affidabilità economica, finanziaria e tecnica a realizzare il programma contrattuale perseguito dall’amministraizon ed a proseguire nel tempo l’attività appaltata in modo adeguato e flessibile. Tali essendo il carattere e la natura delle prescrizioni in merito ai requisiti richiesti alle imprese per la partecipazione alle gare per l’affidamento di appalti pubblici, ne derivano conseguenti vincoli, sul piano del contenuto di dette prescrizioni, che pur potendo variare entro limiti minimi e massimi, deve essere comunque tale da rispondere ad esigenze oggettive dell’Amministrazione, dovendo risultare adeguato e comunque non eccessivo rispetto a dette esigenze e pertanto commisurato all’effettivo valore della prestazione, adeguato in base alla specificità del servizio appaltando ed alle speciali caratteristiche della prestazione e della struttura in cui deve svolgersi, nel rispetto dei principi di ragionevolezza ed imparzialità dell’azione amministrativa e nel rispetto dei principi, di derivazione comunitaria ed immanenti nell’ordinamento nazionale, di concorrenza ed apertura del mercato degli appalti pubblici (cfr., ex plurimis,Cons. st., sez. V n. 206 del 23.1.2006).
Nella fattispecie in esame, detti limiti sono stati indubbiamente superati dalla stazione appaltante: ad es., nell’individuazione dei requisiti di capacità finanziaria ed economica necessari per la partecipazione alla gara per l’affidamento del servizio in contestazione, l’amministrazione ha stabilito un livello di fatturato superiore al doppio dell’importo annuale del servizio da affidare, livello che supera la soglia della ragionevole proporzione con il valore del contratto e non trova alcuna giustificazione nell’oggetto del medesimo, trattandosi di un servizio di tipo tradizionale, né presenta un particolare rischio di impresa. Orbene, l’eccesso di potere in cui è incorsa l’amministrazione appare evidente sia con riguardo all’esorbitante livello del volume di affari e di esperienze pregresse richiesto sia con riguardo all’irragionevole esclusione dalla valutazione dei servizi prestati a favore di privati. Numerose pronunce hanno ritenuto illegittimo il bando che prescrive a carico delle concorrenti, quale requisito di prequalificazione, un volume d’affari negli ultimi tre esercizi superiore al doppio del valore del servizio oggetto di un appalto (T.A.R. Lombardia Milano, sez. III, 31 gennaio 2002, n. 414; cfr.T.A.R Liguria, Sez. II, 08 gennaio 2003, n. 20). Ne consegue che la restrizione soggettiva operata dall’amministrazione appare del tutto illogica ed in contrasto con i principi di concorrenza nelle gare per l’affidamento di appalti pubblici. Per quanto attiene la presente contestazione, e richiesta di autotutela, è pacifico che quando il bando contenga nel suo seno norme cosiddette “escludenti”, vale a dire regole che determinano l’impossibilità del soggetto di partecipare alla gara, è stato correttamente ritenuto inutile che lo stesso presenti la domanda di partecipazione alla gara, in quanto la stessa sarebbe “inutiliter” richiesta e finirebbe solo per aggravare senza ragione una posizione facilmente individuabile già sulla base della mera lettura delle norme del bando di gara, per cui ben può richiedere di procedersi in danno del bando di gara escludente.
In sintesi, il bando di gara si rivela essere, ictu oculi, illegittimo per le seguenti motivazioni:
1. Durata dell’appalto: il bando di gara predisposto dalla Samte S.r.l. prevede che la durata dell’appalto sia quinquennale, con possibilità di ripetizione dei servizi per ulteriori cinque anni, con possibilità della proroga per altri sei mesi. La vigente normativa esclude la possibilità di una proroga del servizio. Si tenga presente che il bando prevede il richiamo all’art. 57 del D.Lgs n.163/2006 (Procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara (art. 31, direttiva 2004/18; art. 9, d.lgs. n. 358/1992; art. 6, co. 2, legge n. 537/1993; art. 24, legge n. 109/1994; art. 7, d.lgs. n. 157/1995). Orbene, non si vede come si possa prevedere la applicazione del predetto articolo in tema di proroga e di ripetizione del servizio, considerato che la richiamata norma prevede che “le stazioni appaltanti possono aggiudicare contratti pubblici mediante procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara”, in determinate ipotesi che non ricorrono nel caso di specie, e considerato che la norma espressamente prevede il divieto del “rinnovo tacito dei contratti aventi ad oggetto forniture, servizi, lavori”, per cui i contratti rinnovati sono nulli. Si tenga presente che, in concreto, la complessa questione dell’impossibilità del rinnovo dei contratti pubblici di appalto, di servizi e forniture, secondo modalità simili a quelle a suo tempo disciplinate dall’art. 6, comma 2, della legge n. 537/1993 e s.m.i., è stata affrontata, a più riprese, dal Consiglio di Stato che, da ultimo con la recente sentenza n. 3391 dell’8 luglio 2008, Sezione V, si è pronunciato anche in relazione al profilo più sfuggente dell’istituto in esame, ossia quello del c.d. “rinnovo programmato”. L’orientamento giurisprudenziale maturato nel frattempo dal Consiglio di Stato, uniforme e costante, consolida definitivamente una preclusione generalizzata ed imperativa di rinnovabilità dei contratti pubblici, senza distinguo alcuno tra rinnovo tacito, automatico ed espresso, estesa, per la natura imperativa della disposizione abrogatrice dell’art. 23 della legge n. 62/2005, anche a quelle clausole contrattuali che ne avevano previsto l’ammissibilità, in conformità al regime previgente. Per capire portata ed effetti dell’innovato quadro normativo in tema di rinnovabilità dei contratti di appalto delle pubbliche amministrazioni, occorre muovere dalla disciplina previgente e da un’analisi delle posizioni dottrinali e giurisprudenziali che nel tempo, e tutt’ora, si espongono pro e contro l’ammissibilità dell’istituto in esame.La disciplina previgente consentiva alle pubbliche amministrazioni la facoltà di procedere al rinnovo dei contratti per la fornitura di beni e servizi, entro tre mesi dalla loro conclusione e dopo aver accertato la sussistenza di ragioni di convenienze e pubblico interesse. In ogni caso, era comunque vietato il rinnovo tacito di tali contratti. In particolare, l’art. 6, comma 2, della Legge 24 dicembre 1993, n. 537, a seguito della modifica introdotta dall’art. 44 della Legge 23 dicembre 1994, n. 724, disponeva:“E’ vietato il rinnovo tacito dei contratti delle pubbliche amministrazioni per la fornitura di beni e servizi, ivi compresi quelli affidati in concessione a soggetti iscritti in appositi albi. I contratti stipulati in violazione del predetto divieto sono nulli.Entro tre mesi dalla scadenza dei contratti, le amministrazioni accertano la sussistenza di ragioni di convenienza e di pubblico interesse per la rinnovazione dei contratti medesimi e, ove verificata detta sussistenza, comunicano al contraente la volontà di procedere alla rinnovazione”.La legge 18 aprile 2005, n. 62, Legge Comunitaria 2004, ha modificato tale disciplina in virtù di una procedura di infrazione che la Commissione UE aveva rivolto al nostro Paese. Fermo restando il dettato relativo al divieto di tacito rinnovo (art. 6, comma 2, primo periodo, citato), l’art. 23, comma 1, di tale legge ha, da un lato, soppresso l’ultimo periodo del 2° comma del predetto articolo 6, che consentiva appunto alle amministrazioni di avvalersi della suddetta facoltà di rinnovo e, dall’altro, previsto solo la “proroga” dei contratti per acquisti e forniture di beni e servizi “per il tempo necessario alla stipula dei nuovi contratti a seguito di espletamento di gare ad evidenza pubblica a condizione che la proroga non superi comunque i sei mesi e che il bando di gara venga pubblicato entro e non oltre novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge”.La ratio dell’art. 23 della legge comunitaria, come già accennato, è nella esigenza di chiudere una procedura d’infrazione espungendo dall’ordinamento interno una norma che contrastava con i principi comunitari, laddove l’unica valutazione richiesta all’amministrazione atteneva ai profili di economicità della fornitura da ripetersi, mentre nessuna considerazione aveva il rispetto dell’evidenza pubblica e del principio generale di concorrenza. Si riteneva, in sostanza che la norma fosse in contraddizione con i principi di non discriminazione e di trasparenza, preordinati ad assicurare le libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi, contemplate dagli artt. 43 e 49 del Trattato CE. Anche il Codice dei contratti pubblici (d. lgs. n. 163/2006), entrato in vigore nel frattempo, non ha fornito alcuna esplicita indicazione per la risoluzione della questione, ampliandone invece la portata con specifico riferimento a talune connesse disposizioni. Infatti, da un lato, l’art. 57, comma 7, espressamente prevede: “E’ in ogni caso vietato il rinnovo tacito dei contratti aventi ad oggetto forniture, servizi, lavori, e i contratti rinnovati tacitamente sono nulli”, confermando così quanto rimasto dell’art. 6, comma 2, della legge 537/1993 (ora interamente abrogato, con effetto 1° luglio 2006, dall’art. 256 dello stesso Codice), dall’altro, nessuna chiara disposizione è in esso contenuta in merito alla disciplina del rinnovo espresso. Dall’altro, all’interno dello stesso Codice, si rinvengono norme che fanno riferimento al rinnovo espresso degli appalti pubblici, in particolare:
1) l’art. 29, comma 1, stabilisce che per il calcolo del valore stimato degli appalti e delle concessioni si deve tener conto anche di “qualsiasi forma di opzione e rinnovo del contratto”;
2) l’art. 29, comma 10, individua la base per il calcolo del valore stimato dell’appalto per quegli appalti pubblici di forniture e servizi che presentano carattere di regolarità o “sono destinati a essere rinnovati entro un determinato periodo 3) l’art. 57, comma 5, lett. b), prevede espressamente la ripetizione di lavori o servizi analoghi già affidati all’aggiudicatario, ammettendo una procedura negoziata senza bando (in sostanza un rinnovo, ovvero un nuovo contratto cui si perviene negoziando con il precedente contraente individuato con procedura di gara formale). Così, dunque, all’indomani della disposizione comunitaria e del Codice dei contratti, interventi della dottrina e della giurisprudenza amministrativa si sono contrapposti in ordine alla perdurante ammissibilità dell’istituto in questione, dando vita a due distinti filoni interpretativi dell’art. 23, L. n. 62/2005. Le posizioni della giurisprudenza amministrativa di merito si riassumono in due distinti filoni interpretativi, cui hanno dato vita inizialmente il TAR Lazio, da un lato, e il TAR Campania, dall’altro.I giudici del TAR Lazio aderiscono inequivocabilmente a quell’orientamento interpretativo della norma comunitaria che conclude per la percorribilità del rinnovo espresso. L’orientamento espresso dal Tar Campania, invece, con la sentenza 20 dicembre 2005, n. 20502, evidenzia l’illegittimità del rinnovo tout court, a seguito della disciplina sopravvenuta in materia con l’entrata in vigore della legge comunitaria 2004. Secondo il Collegio campano, essendo l’art. 23 cit. la diretta risposta del legislatore alle censure della Commissione Europea in ordine all’elusione dei principi di concorrenza e par condicio attraverso forme alternative alla gara, lo scopo della norma sarebbe quello di vietare il rinnovo, tacito o espresso che sia, per escludere eccezioni al ricorso a procedure ad evidenza pubblica per la scelta del contraente. Seguendo il ragionamento del TAR Campania, alla stessa conclusione si perviene poi anche a seguito della lettura della norma nella sua interezza. Infatti, il collegamento logico fra i diversi commi induce ad escludere la possibilità di rinnovo tout court (in qualsiasi forma), anche con riferimento ai contratti scaduti che contengano la clausola di rinnovo (originariamente legittima).
L’orientamento giurisprudenziale maturato nel frattempo dal Consiglio di Stato, uniforme e costante, consolida definitivamente una preclusione generalizzata ed imperativa di rinnovabilità dei contratti pubblici, senza distinguo alcuno tra rinnovo tacito, automatico ed espresso, estesa, per la natura imperativa della disposizione abrogatrice dell’art. 23 della legge n. 62/2005, anche a quelle clausole contrattuali che ne avevano previsto l’ammissibilità, in conformità al regime previgente. Per il Consiglio di Stato, l’abrogazione dell’art. 6, comma 2, ultima parte, disposta dall’art. 23 della legge comunitaria, ha avuto l’effetto di espungere dall’ordinamento giuridico la norma che ammetteva, sia pure alle condizioni ivi espresse, il rinnovo vero e proprio dei contrati pubblici di appalto.
Pertanto, sintetizzando la posizione assunta dall’alto Consesso, per effetto di tale abrogazione:
1. non residua alcuno spazio per l’autonomia contrattuale delle parti in tema di rinnovo o proroga dei contratti pubblici di appalto;
2. trova, viceversa, applicazione il principio in base al quale, salvo espresse previsioni dettate dalla legge in conformità della normativa comunitaria l’amministrazione, una volta scaduto il contratto e ove rilevi la necessità di avvalersi ancora dello stesso tipo di prestazioni, deve effettuare una nuova gara (salvo l’esercizio di una limitata proroga strumentale al passaggio da un regime contrattuale ad un altro);
3. l’eliminazione della possibilità di provvedere al rinnovo dei contratti di appalto scaduti, disposta con l’art.23 l. n.62/05, assume valenza generale ed una portata preclusiva di opzioni ermeneutiche ed applicative di altre disposizioni dell’ordinamento che si risolvono, di fatto, nell’elusione del divieto di rinnovazione dei contratti pubblici;
4. infine, la natura imperativa ed inderogabile della sopravvenuta abrogazione legislativa, che introduce un divieto generalizzato di rinnovazione dei contratti delle pubbliche amministrazioni, implica la sopravvenuta inefficacia anche delle previgenti clausole contrattuali di rinnovo, confliggenti con il nuovo e vincolante principio che non tollera la sopravvivenza dell’efficacia di difformi clausole negoziali (attesa, appunto, la natura indisponibile degli interessi in esse coinvolti).
Di seguito, una rassegna delle pronunce più significative.
a) Il parere 12 ottobre 2005, n. 3260/2005 – Sezione I. Consiglio di Stato.
Già a ridosso dell’entrata in vigore dell’art. 23 della legge n. 62/2005, l’Alto consesso ha affrontato l’argomento in esame, a seguito di una specifica richiesta dell’Amministrazione volta a conoscere se, alla luce dell’entrata in vigore della legge n. 62/2005, potesse considerarsi ancora salva la facoltà di rinnovo in base all’art. 7 del d.lgs. n. 157/1995, di nuovi servizi consistenti nella “ripetizione di servizi analoghi”, già affidati allo stesso prestatore. Con il parere n. 3260/2005, la I Sezione del Consiglio di Stato ha espresso l’avviso di non ritenere sufficientemente supportata una linea interpretativa favorevole alla perdurante facoltà riconosciuta all’Amministrazione di pervenire ad un rinnovo dei contratti, in particolare, avvalendosi della procedura della trattativa privata, di cui all’art. 7, del d. lgs. n. 157/1995, e senza l’avvio di procedure concorsuali. Rilevando, inoltre, come l’interpretazione letterale dell’art. 23 non consenta deroghe al divieto di rinnovo, il Consiglio di Stato ha svolto una importante precisazione sulla corretta e diversa accezione degli istituti del rinnovo e della proroga, che invece la prassi tende ad accomunare e, più spesso, a confondere. È stato così evidenziato che, mentre il rinnovo conferma le preesistenti condizioni contrattuali e lo stesso fornitore per un’ulteriore periodo di tempo (non eccedente la durata originaria del contratto) e senza effettuazione di una gara, la proroga, nella sua accezione tecnica, ha carattere di temporaneità e di strumento atto esclusivamente ad assicurare il passaggio da un regime contrattuale ad un altro. È quindi utile ricordare che tale parere è stato fatto proprio dalla Circolare n. 12 del 13 marzo 2006, con la quale il Ministero dell’Economia e delle finanze, dettando “Disposizioni in materia di rinnovo dei contratti delle Pubbliche amministrazioni per la fornitura di beni e servizi – Art. 23 della legge 18 aprile 2005, n. 62”, ha così richiamato l’attenzione delle amministrazioni pubbliche ad un corretto comportamento nella specifica materia contrattuale.

b) La sentenza 31 ottobre 2006, n. 6457 – Sezione IV. Consiglio di Stato.
Il primo intervento a livello giurisprudenziale dell’Alto consesso è quello operato dalla IV Sezione che, con decisione 31 ottobre 2006, n. 6457, ha chiarito i presupposti e la portata della previsione abrogativa del rinnovo. Attraverso un’opera di tipo ricognitivo, i supremi giudici amministrativi rilevano che l’articolo 23 della legge n. 62/2005 ha eliminato radicalmente e definitivamente l’istituto del rinnovo dall’ordinamento. Il Consiglio di Stato muove preliminarmente dalla esigenza che ogni esegesi della modifica introdotta dall’art. 23 risulti coerente con la ratio e con lo scopo della relativa innovazione, finalizzata – come anticipato in premessa e come si ricava dall’esame della relazione illustrativa – all’archiviazione di una procedura di infrazione comunitaria (n. 2003/2110), relativa proprio alla disposizione nazionale concernente la facoltà di procedere al rinnovo espresso dei contratti delle pubbliche amministrazioni; facoltà, questa, ritenuta invece incompatibile con i principi di libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi cristallizzati negli artt. 43 e 49 del Trattato CE, nonché con la normativa europea in tema di tutela della concorrenza nell’affidamento degli appalti. In conformità a tale premessa metodologica, nella sentenza in esame si evidenzia che “all’eliminazione della possibilità di provvedere al rinnovo dei contratti di appalto scaduti, disposta con l’art. 23 della legge n. 62/2005, deve assegnarsi una valenza generale ed una portata preclusiva di opzioni ermeneutiche ed applicative di altre disposizioni dell’ordinamento che si risolvono, di fatto, nell’elusione del divieto di rinnovazione dei contratti pubblici. Solo rispettando il canone interpretativo appena indicato – prosegue il Consiglio di Stato – si assicura l’effettiva conformazione dell’ordinamento interno a quello comunitario, mentre, accedendo a letture sistematiche che riducano la portata precettiva del divieto di rinnovazione dei contratti pubblici scaduti e che introducano indebite eccezioni, si finisce per vanificare la palese intenzione del legislatore del 2005 di adeguare la disciplina nazionale in materia a quella europea e, quindi, per conservare profili di conflitto con quest’ultima del regime giuridico del rinnovo dei contratti di appalto delle pubbliche amministrazioni.” Secondo il Consiglio di Stato, pertanto, si determina la conseguenza per cui non solo l’intervento normativo di cui all’art. 23 della legge n. 62/2005 deve essere letto ed applicato in modo da escludere ed impedire, in via generale ed incondizionata, la rinnovazione di contratti di appalto scaduti, ma anche l’esegesi di altre disposizioni dell’ordinamento che consentirebbero l’affidamento senza gara, in deroga alle procedure ordinarie, degli stessi servizi per ulteriori periodi deve essere condotta alla stregua del vincolante criterio che vieta (con valenza imperativa ed inderogabile) il rinnovo dei contratti. Inoltre, non varrebbe a sostenere l’ammissibilità del rinnovo la sua espressa previsione nel bando di gara e nel successivo contratto, posto che la natura imperativa ed inderogabile dell’art. 23, legge n. 62/2005, implica la sopravvenuta inefficacia delle previsioni, amministrative e contrattuali, “confliggenti con il nuovo e vincolante principio, che non tollera la sopravvivenza dell’efficacia di difformi clausole negoziali, attesa la natura indisponibile degli interessi in esse coinvolti”.
c) La sentenza 31 maggio 2007, n. 2866 – Sezione IV. Consiglio di Stato.
Un particolare rilievo assume la sentenza n. 2866, della IV Sezione, in ordine alla pretesa equivalenza del rinnovo di cui all’abrogato art. 6, comma 2 della legge n. 537/1993 e s.m.i., con la previsione concernente, nell’ambito della trattativa privata, la ripetizione di “servizi analoghi”, di cui all’art. 7, comma 2, lett. f), del d.lgs. n. 157/1995, oggi confluite nell’art. 57, comma 5, lett. b) del codice dei contratti (d.lgs. n. 163/2006). Tale sentenza, chiarendo la portata interpretativa della art. 23, evidenzia i profili distintivi dei due istituti ed esclude qualunque ipotesi di rinnovo, anche espresso, che al di fuori dei casi contemplati dall’ordinamento (oggi, dal codice dei contratti, ieri dalla legge “Merloni” e dalle altre fonti di recepimento della normativa comunitaria, fra cui il d.lgs. n. 157/1995) darebbe luogo ad una nuova figura di trattativa privata “pura”, non consentita dal diritto comunitario. Precisa, in particolare, il Consiglio di Stato che:
1) l’art. 23, comma 1, L. n. 62 del 2005, che ha abrogato l’ultimo periodo dell’art. 6, comma 2, L. n. 537 del 1993, ha introdotto nell’ordinamento italiano il divieto di rinnovazione dei contratti di servizi e forniture, fatte salve le limitate deroghe previste espressamente da disposizioni nazionali, attuative di corrispondenti previsioni comunitarie, da interpretarsi comunque in modo rigoroso e restrittivo;
2) l’art. 7, lett. f), d.lgs. n. 157 del 1995, nel prevedere una ipotesi di affidamento diretto del contratto, in conformità a quanto sancito dalla direttiva 92/50/CEE, e quindi una deroga al regime dei principi comunitari di trasparenza e competitività degli appalti, deve essere interpretato restrittivamente e rigorosamente, in modo da evitare elusioni al divieto di rinnovazione, espressa o tacita, dei contratti di appalto;
3) il divieto di rinnovo dei contratti è stato recepito e generalizzato dall’art. 57 del Codice dei contratti, anche con riferimento al rinnovo espresso (al comma 7 si prevede solo il divieto di rinnovo tacito), atteso che dalla collocazione sistematica delle norme colà sancite si desume che è vietata qualsiasi ipotesi di rinnovo al di fuori dei casi espressamente previsti dal medesimo art. 57 (fra cui vi rientra anche quello disciplinato in precedenza dall’art. 7, lett. f) citato);
4) per queste ragioni l’art. 23, L. n. 62/2005, ha abrogato in parte l’art. 6, comma 2 della L. n. 537/1993, atteso che il rinnovo espresso integra una ipotesi di trattativa privata senza bando diversa da quelle tassativamente consentite.
Merita sottolineare come la sentenza in esame abbia riformato la diversa decisione del TAR Campania (Sezione I, 3 luglio 2006, n. 7853), favorevole ad una permanenza dell’istituto del rinnovo espresso, attivabile per via negoziale, evidenziando l’equivoco della tesi che assimila le previsioni in tema di rinnovo espresso con quelle della trattativa privata e, in particolare, della ripetizione dei servizi analoghi.
Sul punto deve peraltro richiamarsi la sentenza del Consiglio di Stato, Sezione V, 31 dicembre 2003, n. 9302, che già allora aveva segnato confini e diversità dei due citati istituti, allo scopo di non estendere la disciplina del rinnovo alla specifica normativa comunitaria, che ha invece altre finalità ed è applicabile in base a diverse condizioni.
Si evidenziava, così, in tale ultima pronuncia, che la normativa comunitaria non si riferisce, specificamente, al rinnovo del contratto, bensì alla ripetizione di servizi analoghi con il medesimo contraente, come esecuzione di un unico disegno progettuale, che preveda sin dal primo affidamento la possibilità di tale ripetizione.
La sentenza n. 2866 del maggio 2007 torna, dunque sui tratti distintivi delle due fattispecie in esame rilevando che, ove difettino i presupposti della trattativa privata afferente alla ripetizione di servizi analoghi (art. 57, comma 5, lett. b), d. lgs. n. 163/2006), e cioè un nuovo atto di aggiudicazione, un progetto base, la stima complessiva dell’entità dei servizi successivi ai fini della determinazione del valore globale del contratto, non risulta sufficiente che la lettera di invito ed i relativi contratti di appalto stipulati in origine contengano clausole generiche recanti la previsione di rinnovo, senza menzionare espressamente la disposizione recata dal citato art. 57 e senza, soprattutto, soddisfare i requisiti sostanziali richiesti da tale norma per la rinnovazione del contratto.
d) La sentenza 8 luglio 2008, n. 3391 – Sezione V. Consiglio di Stato.
La posizione espressa dal Consiglio di Stato con la sentenza dell’ottobre 2006 è stata tuttavia confutata da molti osservatori, che hanno continuato ad ipotizzare la possibilità, per le amministrazioni, di avvalersi del c.d. “rinnovo programmato”, prevedendo esplicitamente all’interno dei capitolati clausole prefigurative del rinnovo, tali da rendere nota a tutti i concorrenti la volontà in tal senso delle stesse stazioni appaltanti e garantire, pertanto, la massima trasparenza sulla eventuale scelta di replicare il contratto, una volta scaduto quello originario. Tuttavia, la contraddizione di tale pratica con il quadro normativo vigente è stata nuovamente evidenziata dalla recente sentenza n. 3391, dell’8 luglio 2008, con la quale la Sezione V del Consiglio di Stato ha completamente richiamato l’impianto concettuale della decisione n. 6457/2006, concludendo che, in tema di rinnovo o proroga dei contratti pubblici di appalto, non vi è alcuno spazio per l’autonomia contrattuale delle parti, ma vige il principio che, salvo espresse previsioni dettate dalla legge in conformità della normativa comunitaria, l’amministrazione, una volta scaduto il contratto, deve, qualora abbia ancora la necessità di avvalersi dello stesso tipo di prestazioni, effettuare una nuova gara e salva la possibilità di una limitata proroga. Pertanto, allorquando un’impresa del settore lamenti che alla scadenza di un contratto non si è effettuata una gara, questa fa valere il proprio interesse legittimo al rispetto delle norme dettate in materia di scelta del contrante e l’eventuale nullità o inefficacia della clausola contrattuale che preveda un rinnovo o una proroga va accertata in via incidentale dal giudice amministrativo, ritenuto competente a conoscere in via principale della eventuale lesione del predetto interesse legittimo. Nel giudizio del Consiglio di Stato, un provvedimento di rinnovo di un contratto di appalto per servizi o forniture si pone quindi in contrasto con la disciplina della materia e, specificamente, con l’art. 23 della legge 18 aprile 2005, n. 62 , che, mentre al comma 1 ha vietato il rinnovo dei contratti, al successivo comma 2 ha consentito solo la proroga dei contratti per acquisti e forniture di beni e servizi “per il tempo necessario alla stipula dei nuovi contratti a seguito di espletamento di gare ad evidenza pubblica a condizione che la proroga non superi comunque i sei mesi e che il bando di gara venga pubblicato entro e non oltre novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge”.
L’aspetto rafforzativo di tale analisi in termini di divieto assoluto del rinnovo è ulteriormente elaborato dal Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, laddove afferma che a ipotetico sostegno del c.d. “rinnovo programmato” non possa valere nemmeno la circostanza che il disciplinare ed il contratto prevedano la possibilità di rinnovo poiché, per come si è già visto, per effetto dell’entrata in vigore dell’art. 23 della legge n. 62/2005, deve ritenersi verificata l’inefficacia sopravvenuta di qualsiasi disposizione contrattuale contrastante con tale norma.
2. Enormità della cauzione richiesta ai partecipanti all’appalto. Il bando in oggetto prevede il versamento di una cauzione provvisoria di € 4.297.597,14=, per i soggetti che intendono partecipare alla gara, mentre per l’aggiudicatario è richiesta una cauzione definitiva pari al 10% dell’importo contrattuale annuo. L’importo per i partecipanti (e per l’aggiudicatario) si rivela essere davvero abnome e contrastante con i principi di massima partecipazione ad una gara ad evidenza pubblica, laddove si consideri che pochissime società attualmente sono in grado di versare, a titolo definitivo cauzioni di importi così rilevanti ed abnormi, eliminando dalla partecipazione alla gara tutti i soggetti che attualmente operano nel settore, nella provincia di Benevento, i quali pur non avendo detti requisiti hanno comunque raggiunto livelli di eccellenza, riconosciuti attraverso il riconoscimento dei Comuni del Beneventano premiati come comuni ricicloni. Inoltre, si palesa la violazione e falsa applicazione dell’art. 30 della L. 11 febbraio 1994, n. 109, ed in particolar modo, la violazione del principio della proporzionalità nella fissazione delle garanzie da parte degli interessati, con effetti distorsivi sulla concorrenza, con conseguente eccesso di potere per abuso, difetto di motivazione, arbitrarietà, straripamento e irragionevolezza. Infatti, la disciplina del settore dei servizi non contiene disposizioni abilitanti la stazione appaltante a richiedere la prestazione di cauzione o di altre forme di garanzia, a differenza di quanto previsto per gli appalti di lavori pubblici dall’art. 30 della L. 11 dicembre 1994, n. 109, che comunque, se applicabile per analogia, prevede percentuali inferiori a quelle stabilite nel caso che occupa. CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V – Sentenza 15 febbraio 2007, n. 647: “2. Rientra nella discrezionalità delle Amministrazioni appaltanti la fissazione di requisiti di partecipazione ad una gara d’appalto diversi, ulteriori e più restrittivi di quelli legali, salvo il limite della logicità e ragionevolezza di quanto richiesto e della pertinenza e congruità a fronte dello scopo perseguito, in modo da non restringere, oltre lo stretto indispensabile, la platea dei potenziali concorrenti e da non precostituire situazioni di assoluto privilegio”.

3. Fatturato globale. Il bando di gara richiede un fatturato globale nell’ultimo triennio non inferiore al doppio dell’importo annuale posto a base di gara, riferito esclusivamente ai servizi di igiene urbana. E’ di tutta evidenza che l’applicazione di tale pregiudiziale limita la partecipazione di numerose società alla gara in oggetto, per un requisito impossibile da raggiungere da soggetti che hanno operato ed operano in una realtà economica limitata quale la provincia di Benevento, i cui numeri non consentono il raggiungimento del fatturato richiesto. Come sì è già avuto modo di dire, è consentito alla stazione appaltante di inserire ulteriori clausole anche più rigorose e restrittive di quelle previste dalla legge, a condizione però che siano rispettati alcuni principi fondamentali, più volte richiamati, di proporzionalità e ragionevolezza. La ratio sottostante la individuazione da parte della stazione appaltante di requisiti relativi al possesso di pregresse esperienze, in grado di evocare una astratta affidabilità dei concorrenti, va combinata con la più generale ratio che presiede alla stessa esistenza delle procedure concorsuali. La breve premessa di cui sopra trova fondamento, ove si pensi alle prescrizioni di un bando di gara che riguardano il fatturato o più in generale la capacità economica e finanziaria.La norma non stabilisce in modo tassativo quali sono i requisiti da richiedere ai partecipanti alle gare di appalto lasciando tale determinazione alla ragionevole discrezionalità delle singole amministrazioni. Le prescrizioni di cui si parla, si è detto, devono necessariamente raccordarsi con l’oggetto dell’appalto e non costituire una deleteria limitazione dell’accesso alla gara delle imprese presenti sul mercato.Il TAR Piemonte sostiene la illegittimità di quella clausola del bando che prescrive solo il fatturato globale. Secondo il primo giudice piemontese l’articolo 42, lettera c) del decreto legislativo 163 del 2006 (codice dei contratti pubblici) ormai impone che, per la dimostrazione della capacità economica e finanziaria delle imprese partecipanti, l’Amministrazione appaltante richieda una dichiarazione concernente sia il fatturato globale dell’impresa, sia l’importo relativo ai servizi o forniture nel settore oggetto della gara, realizzati negli ultimi tre esercizi; tale norma, pertanto, obbliga le Amministrazioni appaltanti a parametrare la capacità economica e finanziaria sul fatturato specifico, riferito ai servizi analoghi a quelli oggetto di gara, e non limitato al fatturato globale. E’, pertanto, illegittima la clausola di un bando di gara che, in violazione dell’art 41, lett. c), del D.Lgs. n. 163/2006, richiede la prova del solo fatturato globale, omettendo quello specifico riferito ai servizi oggetto della gara. Anche il TAR Lecce ha sostenuto la illegittimità della previsione di un fatturato globale negli ultimi tre esercizi finanziari e di importo particolarmente elevato o comunque eccessivo rispetto all’importo a base d’asta, all’oggetto dell’appalto ed alle finalità perseguite dalla pubblica amministrazione, attraverso l’esperimento di gara. Detto Giudice sostiene, infatti, che le previsioni sproporzionate rispetto all’oggetto del contratto si risolve in una ingiustificata limitazione della platea dei possibili concorrenti, con evidente violazione dell’articolo 42 comma 3 del decreto legislativo 163/2006 il quale riproduce la formulazione dell’articolo 44 comma 3 della direttiva CE 31 marzo 2005/18/4/CE secondo cui le informazioni sulla capacità tecnica e professionale dei fornitori e dei prestatori dei servizi non possono eccedere l’oggetto dell’appalto. Il TAR Emilia-Romagna considera possibile indicare alternativamente il fatturato ovvero il volume di affari contemporaneamente il primo giudice non ha trascurato di pronunciarsi sulla portata delle prescrizioni del bando, ritenendo illegittima la clausola che impone la dimostrazione del possesso di un fatturato globale di impresa realizzato nel triennio pari ad un importo equivalente ad oltre diciassette volte il prezzo a base d’asta. CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V – Sentenza 1° ottobre 2003, n. 5684: “1. E’ illegittimo il bando che richieda ai concorrenti per la partecipazione alla gara un fatturato superiore al doppio del corrispettivo presunto dell’appalto medesimo, con conseguente illogica ed irrazionale sproporzione tra i criteri di filtro di partecipabilità alla gara e l’oggettiva tipologia della gara; più in generale va osservato che la necessaria libertà valutativa di cui dispone la P.A. appaltante nell’ambito dell’esercizio della discrezionalità tecnica che alla stessa compete in sede di predisposizione della «lex specialis» della gara, deve pur sempre ritenersi limitata da riferimenti logici e giuridici che derivano dalla garanzia di rispetto di principi fondamentali altrettanto necessari nell’espletamento delle procedure di gara, quali quelli della più ampia partecipazione e del buon andamento dell’azione amministrativa”. Parere di Precontenzioso n. 120 del 16/06/2010 – rif. 54/10/S d.lgs 163/06 Articoli 41, 43 – Codici 41.1, 43.1. Rientra nella discrezionalità dell’Amministrazione la fissazione di requisiti di partecipazione ad una gara di appalto diversi, ulteriori e più restrittivi di quelli legali, salvo però il limite della logicità e ragionevolezza degli stessi e della loro pertinenza e congruità a fronte dello scopo perseguito, in modo tale da non restringere oltre lo stretto indispensabile la platea dei potenziali concorrenti e da non precostituire situazioni di assoluto privilegio.
Parere di Precontenzioso n. 110 del 27/05/2010 – rif. PREC 55/10/S d.lgs 163/06 Articoli 41, 43 – Codici 41.1, 43.1
Rientra nella discrezionalità dell’Amministrazione la fissazione di requisiti di partecipazione ad una gara di appalto diversi, ulteriori e più restrittivi di quelli legali, salvo però il limite della logicità e ragionevolezza degli stessi e della loro pertinenza e congruità a fronte dello scopo perseguito, in modo tale da non restringere oltre lo stretto indispensabile la platea dei potenziali concorrenti e da non precostituire situazioni di assoluto privilegio (AVCP, parere n. 83 del 29 aprile 2010, Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza n. 8914 del 29 dicembre 2009, Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza n. 2304 del 3 aprile 2007, Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza n. 6534 del 23 dicembre 2008). Nella procedura di affidamento di un servizio di igiene ambientale è stata ritenuta conforme alla normativa di settore la richiesta di aver raggiunto una resa della raccolta differenziata, in precedenti servizi, pari al 35%, a fronte delle percentuali minime del 35%, 40%, 45% fissate dal legislatore per gli anni 2006, 2007, 2008.
Parere di Precontenzioso n. 109 del 27/05/2010 – rif. PREC 53/10/S d.lgs 163/06 Articoli 41, 43 – Codici 41.1, 43.1
Rientra nella discrezionalità dell’Amministrazione la fissazione di requisiti di partecipazione ad una gara di appalto diversi, ulteriori e più restrittivi di quelli legali, salvo però il limite della logicità e ragionevolezza degli stessi e della loro pertinenza e congruità a fronte dello scopo perseguito, in modo tale da non restringere oltre lo stretto indispensabile la platea dei potenziali concorrenti e da non precostituire situazioni di assoluto privilegio (AVCP, parere n. 83 del 29 aprile 2010, Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza n. 8914 del 29 dicembre 2009, Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza n. 2304 del 3 aprile 2007, Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza n. 6534 del 23 dicembre 2008). Nella procedura di affidamento di un servizio di igiene ambientale è stata ritenuta non conforme alla normativa di settore la richiesta di aver raggiunto una resa della raccolta differenziata, in precedenti servizi, pari al 55%, a fronte delle percentuali minime del 35%, 40%, 45% fissate dal legislatore per gli anni 2006, 2007, 2008.

4. Illegittimità dell’esclusione della città di Benevento dall’appalto promosso dalla Samte. Inopinatamente, dalla Samte S.r.l. è stato escluso dalla provincializzazione del servizio di gestione rifiuti, il capoluogo di provincia, che resta affidato alla società privata che attualmente lo gestisce, con evidente lesione del diritto e delle aspettative di tutte quelle società che gestiscono il servizio presso gli altri comuni della provincia di Benevento, con ottimi risultati. Peraltro, non si giustifica la diversità di comportamento operata dalla stazione appaltante, considerato che mentre le società private che attualmente gestiscono il servizio si vedranno escluse dalla gara per l’imposizione di parametri che escludono a priori la partecipazione, si consente ad altra società privata di continuare a gestire il servizio della raccolta rifiuti della città di Benevento.

5. Patrimonio netto, parametro escludente. Viene chiesto ai soggetti partecipanti un patrimonio netto aziendale, risultante dall’ultimo bilancio approvato, pari ad € 11.000.000,00=, somma davvero spropositata ed escludente tutte le società attualmente operanti nel settore che hanno sede nella provincia di Benevento, se non in tutto il mezzogiorno, parametro si potrebbe dire quasi “classista”, con evidente lesione di tutte le realtà economiche del sud a favore esclusivo delle realtà economiche del settore operanti nel nord Italia, con gravissimo nocumento per l’economia della provincia beneventana.
6. Requisiti illogici Albo Gestori. Per l’espletamento del servizio, il bando di gara prevede l’iscrizione all’Albo dei Gestori Ambientali che richiede il requisito della categoria 1, classe A, categoria 5, non solo sproporzionata, ma per quanto attiene la categoria 5, non necessaria al caso di specie, in quanto riguarda la categoria dei rifiuti speciali, materiali la cui raccolta non è richiesta nel bando di gara. TAR LAZIO, SEZ. I – Sentenza 1° marzo 2002, n. 1577: “1. Il potere discrezionale della P.A. di integrare, tramite il bando di gara, per gli aspetti non oggetto di specifica ed esaustiva regolamentazione, i requisiti di ammissione alle procedure di evidenza pubblica, deve in ogni caso raccordarsi con carattere di proporzionalità ed adeguatezza alla tipologia ed all’oggetto della prestazione per la quale è stata indetta la gara e non deve, inoltre, tradursi in un’ indebita limitazione dell’accesso delle imprese interessate presenti sul mercato”.
7. Illegittimità dei parametri di valutazione delle offerte. Discrezionalità della stazione appaltante. Emerge di tutta evidenza la illegittimità dei parametri per la aggiudicazione del servizio di raccolta e gestione rifiuti, poiché la decisione afferente la scelta del soggetto deputato alla gestione del servizio verrà operata con valutazione tecnica per cui si offrono ben 75 punti al progetto, con discernimento discrezionale senza che possa essere sindacabile l’operato e la decisione della stazione appaltante, mentre per la valutazione economica vengono affidati solo 25 punti, per cui il parametro oggettivo viene automaticamente escluso dal parametro soggettivo discrezionale della Samte, con evidente illegittimità del bando, e lesione degli interessi pubblici. Peraltro, si consideri che su tale aspetto (predisposizione del progetto tecnico) i tempi stretti per la redazione di tale elaborato da consegnare entro il 3 ottobre 2011, determina la disponibilità in capo ai soggetti partecipanti, di un solo mese per la redazione del piano (che necessità della acquisizione, raccolta ed esame dei dati di tutti i comuni della provincia di Benevento, operazione tecnicamente impossibile salvo per aziende che avessero previsto, per tempo il riferimento a tale clausola di gara, e si siano già attrezzate in tempo). In materia di appalti pubblici l’art. 81 del codice dei contratti precisa i criteri in base ai quali sarà selezionata l’offerta pervenuta all’amministrazione appaltante. I criteri di cui si parla sono il prezzo più basso o l’offerta economicamente più vantaggiosa. I successivi art. 82 e 83 precisano che l’offerta economicamente più vantaggiosa tende a conferire rilievo oltre che la prezzo del servizio, alle caratteristiche oggettive della prestazione alcune direttamente indicate dalle suddette norme, altre ancore suscettibili di essere inserite dalle stesse amministrazioni appaltanti ma sempre riconducibili alla valorizzazione della qualità intrinseca della prestazione offerta.L’offerta economicamente più vantaggiosa è istituto di origine comunitaria e rappresenta il metodo di aggiudicazione degli appalti pubblici che anziché collegarsi all’automatica valutazione della convenienza economica su base meramente quantitativa, si fonda sulla comparazione tra il dato economico e quello tecnico cosi da consentire un penetrante e concreto potere di valutazione delle offerte. Per quanto precede è censurabile quel bando di gara per il conferimento di servizi pubblici che, per la determinazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa conferisce notevole peso alle esperienze pregresse, al fatturato, nonché alle dimensioni aziendali. A tale proposito non va sottaciuto che, attribuendo un notevole peso alle esperienze pregresse, fatturato, nonché le dimensioni aziendali, si finisce col premiare qualità soggettive del soggetto proponente che possono certamente avere rilievo nei limiti segnati dall’oggetto dell’appalto, quali indici dimostrativi della capacità economica e tecnica dei concorrenti ma che non possono assumere rilievo di parametro indicativo della qualità della proposta. Il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa di cui all’art. 83 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 tende in modo tassativo a premiare il merito tecnico dell’offerta oggettivamente considerata per cui la sua corretta applicazione richiede che gli elementi di valutazione prescelti siano tali da evidenziare un maggior pregio della proposta contrattuale che dovrà essere resa in favore dell’amministrazione appaltante. Dopo quanto appena detto si ricava che è illegittima la previsione del bando di gara che attribuisce un rilevante punteggio per elementi che nulla hanno a che fare con il metodo oggettivo dell’offerta. La regola “aurea” del metodo dell’offerta economica più vantaggiosa è quella di non attribuire maggior importanza ad un singolo elemento ma di combinarlo con gli altri in modo tale da assicurare all’amministrazione il migliore risultato possibile da un lato e dall’altro di consentire ai partecipanti di confidare in una uniforme valutazione delle offerte. Nel merito, va sottolineato che la giurisprudenza ha censurato la clausola contenuta nel capitolato speciale di appalto che riserva il punteggio al possesso della sola certificazione UNI EN ISO 9002 senza ammettere la possibilità di documentare forme alternative e senza consentire all’eventuale seggio di gara, vincolato dalle prescrizioni di gara, di valutare certificazioni alternative. Così anche è stata censurata quella previsione del bando che attribuisce un maggior punteggio “per pregresse esperienze” in quanto detto parametro è più attinente alla fase di ammissione e nulla ha a che vedere con la qualità dell’offerta.60 Analogamente è stata censurata quella clausola del bando che prevede un maggiore punteggio per la qualità organizzativa. TAR LAZIO – ROMA, SEZ. II – Sentenza 15 settembre 2008, n. 8328: “1. Nel caso di gare da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, l’art. 83, comma 4, del decreto legislativo 12 aprile 2oo6, n. 163 (Codice dei contratti pubblici, secondo cui «…il bando di gara per ciascun criterio di valutazione prescelto prevede, ove necessario, i sub-criteri e i sub-pesi o i sub-punteggi»), ormai limita la discrezionalità della commissione di gara nella specificazione dei criteri di valutazione delle offerte, escludendone ogni facoltà di integrare il bando, e quindi facendo obbligo a quest’ultimo di prevedere e specificare gli eventuali sottocriteri. Alla stregua di tale nuova disposizione di legge, deve quindi ritenersi che è illegittimo il bando di gara di un appalto da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa il quale prevede il potere della commissione giudicatrice di suddividere i criteri in dettagliati sottopunteggi, atteso che tale potere, sia pur ammesso nella disciplina ante-Codice, è ormai precluso dalle disposizioni innovative dell’art. 83 del Codice dei contratti, il quale stabilisce ormai che sia il bando a individuare i sub-criteri, i sub-pesi ed i sub-punteggi, eliminando in proposito ogni margine di discrezionalità in capo alla commissione giudicatrice”. TAR LOMBARDIA – MILANO, SEZ. I – Sentenza 18 giugno 2007, n. 5269: “1. In base al principio della massima partecipazione, deve ritenersi che la stazione appaltante abbia il potere discrezionale di fissare i requisiti di partecipazione ad una gara, ma debba esercitare tale potere conformemente a criteri di ragionevolezza, parità di trattamento ed efficienza della azione amministrativa; legittimamente quindi possono essere previsti requisiti di partecipazione ristretti e selettivi, ma solo quando tali criteri rispondano ad esigenze oggettive dell’amministrazione in relazione al tipo di prestazione oggetto dell’appalto”. TAR CAMPANIA – NAPOLI, SEZ. I – Sentenza 2 aprile 2007, n. 3024: “2. E’ illegittima la clausola della lex specialis di una gara per l’affidamento di un servizio pubblico con il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa che prevede l’assegnazione di una quota rilevante di punteggio per l’elemento costituito dalla «qualità organizzativa» e quindi per aspetti che non riguardano le concrete modalità di svolgimento del servizio ma per quelle che si rivelano più propriamente requisiti di capacità tecnica del soggetto partecipante, quali appunto le pregresse esperienze, la formazione del personale, le attrezzature tecniche e gli strumenti di studio; profili che anche secondo la nuova disciplina introdotta del D.lgs. 12 aprile 2006 n. 163 riguardano la sola capacità tecnica e professionale (art. 42) e non anche il cd. merito tecnico (art. 83)”.

 

8. Spazzamento. Su tale problematica vi è nel caso di specie, evidente violazione di legge con riferimento all’art. 61 del d.lgs. 507/93 di superamento della copertura del costo di esercizio e mancata deduzione di una quota percentuale del servizio spazzamento. La citata disposizione prevede che, dal costo di gestione dei rifiuti, ai fini della determinazione del dovuto sia dedotta una quota percentuale del costo dello spazzamento. Tale operazione sarebbe stata omessa dell’amministrazione, poiché scomputando la suddetta voce e considerando correttamente tutte le voci di ricavo (quali ad esempio conferimento rifiuti ingombranti, pulizia aree mercato, vendita dei sacchetti per raccolta rifiuti ecc.) i ricavi del servizio supererebbero i costi e quindi l’imposizione sarebbe esorbitante.
9. Abnorme aumento della Tarsu. Da un semplice calcolo matematico, applicando i parametri del bando di gara, emerge, in maniera inconfutabile, che la gestione del servizio provincializzato determinerà una triplicazione dei costi della Tarsu rispetto a quelli attualmente sopportati dalla cittadinanza, per cui mentre il servizio oggettivamente ottimo, svolto attualmente dalle aziende nella provincia di Benevento costa 1, con i risultati che sono noti (premio a molti comuni del Beneventano come comuni ricicloni), con la provincializzazione si appesantirà il sistema in termini di costi per i cittadini, con costo economico 3 e con presunti benefici allo stato non sono evidenti.

Invero, è fatto notorio che a partire dal 1 gennaio 2010 è stata riavviata la fase di gestione ordinaria del ciclo dei rifiuti, con lo scivolamento di parte di poteri e funzioni dalla regione alle province, in nome del principio della “provincializzazione” assecondando gli auspici del territorio che spingevano per far coincidere programmazione e gestione dei servizi pubblici su base provinciale (in tal senso legge 123/08, legge 26/10 e legge regionale 4/07 e ss.mm.ii.), con affidamento dell’attuazione alla SAMTE che, come ogni società provinciale di settore, oltre a organizzare e controllare il sistema integrato dei rifiuti è obbligata a definire e trattare i rapporti con i consorzi obbligatori di bacino fino alla gestione del loro personale (Cfr artt 12 e 13 legge 26/13 e legge regionale 2/11).
Il piano industriale è diventato così l’elemento primo di riferimento per cogliere in che modo e con quale impostazione la provincia, tramite la SAMTE, intende attuare il ciclo nel rispetto dei principi di efficienza, efficacia ed economicità del servizio.
Senonchè, si è diviso il territorio in due ambiti: la città da una parte e il resto della provincia dall’altra, determinando così, sul piano giuridico una strategia operativa che è esattamente in antitesi al progetto del legislatore nazionale e regionale che da sempre spinge verso concentrazioni istituzionali, per sostenere operatività capaci di cogliere le opportunità di economie di scala a beneficio di tutti i cittadini attratti dagli oneri di gestione. Infatti, l’articolo 23 bis legge 133/08, che dispone in tema di gestione di servizi pubblici locali a rilevanza economica, viene completamente ignorato e con esso tutte le regole che dispongono in materia di prelievo fiscale di Tarsu e Tia. Invero, la provincia, tramite la SAMTE, aveva conferito il mandato di gestire direttamente i servizi, ovvero subentrando nei contratti in corso con i soggetti privati che svolgono le attività di raccolta, trasporto, trattamento e smaltimento ovvero recupero dei rifiuti, con l’alternativa di affidare ad essi i servizi in somma urgenza o prorogare contratti con riduzione del 3% dei costi di gestione. L’essenza della “provincializzazione” consisteva, quindi, nel consentire all’ente provincia di gestire i residui del passato (consorzi obbligatori) armonizzandoli con le politiche di programmazione e gestione del ciclo. Proprio per questi fini è stato consentito di costituire società in house in deroga ai principi stabiliti dall’articolo 23 bis legge 133/08”. Orbene, è di tutta evidenza che il bando predisposto dalla SAMTE dimostra che l’ente provincia non ha manifestato alcuna intenzione di assolvere alla propria missione, ossia la gestione diretta del ciclo integrato dei rifiuti tesa a dare unicità gestionale a tutti i 78 comuni della provincia.
La deroga all’articolo 23 bis legge 133/08 potrebbe trovare giustificazione solo in caso di gestione diretta, non certo nella decisione di appaltare tutto all’esterno, con attività dannosa per aver fatto perdere al territorio l’opportunità della gestione del ciclo su base provinciale, con l’aggravante di alimentare un contenzioso sul territorio con comuni (per le gestioni esistenti) e cittadini-contribuenti”. Il Bando di gara non può in ogni modo comprendere tutto il territorio provinciale escludendo  la città di Benevento perché in pesante contrasto con le norme comunitarie e le leggi nazionali e regionali e precostituisce un incauto affidamento all’ASIA. Inoltre, la legge regionale n. 4 del 2007 cosi come modificata dalla legge n. 4 del 2008 nonché la legge 26/2010 individuano quale soggetto titolare del trattamento dell’intero ciclo dei rifiuti le società provinciali  e per tanto l’avere escluso la città di Benevento equivale ad autorizzare la stessa all’auto affidamento dei servizi con scavalco delle gare previste a norma di legge. Il bando di gara ha previsto che il soggetto aggiudicatario “assuma” ( in modo non chiaro con molti se e molti ma) il personale licenziato dai Consorzi di bacino. Tale affermazione lascia intendere,inequivocabilmente che il personale dei consorzi nonostante le sentenze favorevoli al reintegro immediato  resterà disoccupato fino agli esiti di gara e che non vi è alcuna intenzione da parte dei consorzi e della stessa Samte di ottemperare a quanto previsto dalla legge regionale Campania n.4 del 2007, dalla legge n.26/2010 e dal Decreto legislativo 152/2006 art 202 comma 6. Pertanto, è pacifico che il bando di gara per i servizi di raccolta e trasporto non può comprendere tutto il territorio provinciale escludendo la città di Benevento perché in pesante contrasto con le norme comunitarie e le leggi nazionali e regionali, e precostituisce un incauto affidamento all’ASIA. Inoltre, la legge regionale n. 4 del 2007 così come modificata dalla legge n. 4 del 2008, nonché la legge 26/2010 individuano quale soggetto titolare del trattamento dell’intero ciclo dei rifiuti le società provinciali, e pertanto l’avere escluso la città di Benevento equivale ad autorizzare la stessa all’auto-affidamento dei servizi con scavalco delle gare previste a norma di legge.

In diritto, è pacifico l’interesse delle società interessate al servizio, ad attivarsi per la contestazione delle clausole considerate illegittime pur senza necessità di una preventiva partecipazione alla gara, poiché è fatto notorio che opera il noto principio per cui, laddove si sia in presenza di clausole  c.d. escludenti – cioè di clausole che precludono la partecipazione alla gara, impedendo l’ammissione alla stessa, e di quelle che non consentono di effettuare un’offerta concorrenziale – l’onere di presentare la domanda di partecipazione  costituisce un inutile aggravio a carico dell’impresa (Consiglio Stato, sez. V, 25 maggio 2009, n. 3217). Infatti, ritiene il Giudice che il bando di gara o la lettera di invito, normalmente impugnabili con l’atto applicativo (conclusivo del procedimento concorsuale) devono essere immediatamente impugnati allorché contengano clausole impeditive dell’ammissione dell’interessato alla selezione, la giurisprudenza ha invero tradizionalmente considerato come idonee a ledere immediatamente l’interesse all’aggiudicazione le clausole "escludenti", preclusive della partecipazione alla gara dei soggetti sforniti dei requisiti soggettivi richiesti.
TUTTO QUESTO E’ CIO’ CHE SI IMPEGNANO A PREDISPORRE ED A PORRE IN ESSERE LA SCRIVENTE SOCIETA’ E QUELLE CHE UNITAMENTE SOTTOSCRIVONO TALE ISTANZA DI AUTOTUTELA.
Tali clausole riguardano direttamente ed immediatamente gli aspiranti concorrenti, e non le loro offerte o le ulteriori attività connesse allo svolgimento della gara, ed identificano immediatamente i soggetti che, in quanto privi dei requisiti richiesti, sono concretamente incisi dalle stesse. Solo questi ultimi, infatti, attraverso un’autovalutazione relativa al possesso o meno dei requisiti, sono in grado di percepire autonomamente la valenza lesiva diretta ed attuale che la clausola possiede nei confronti del proprio interesse all’aggiudicazione, con possibilità di impugnazione del bando, nei termini di legge, senza necessità di presentazione della domanda di partecipazione alla gara. Di detto indirizzo costituiscono significativa espressione per quanto riguarda il Consiglio di Stato (oltre alla decisione della V Sezione 20 settembre 2001 n. 4970, in realtà relativa al caso peculiare dell’aggiudicatario di gara annullata che ne impugni la riedizione senza parteciparvi) in particolare le decisioni della VI Sezione 24 maggio 2004 n. 3386 e della V Sezione 14 febbraio 2003 n. 794, nonché il parere della II Sezione 7 marzo 2001 n. 149. A sostegno di tale indirizzo è stato rilevato da un lato che qualora il ricorrente risulti leso, in quanto la partecipazione alla procedura è preclusa dallo stesso bando, sussiste l’interesse a gravare la relativa determinazione, a prescindere dalla mancata presentazione della domanda, posto che l’impugnante ha proprio interesse a impedire lo svolgimento della procedura selettiva (Cons. St., V Sezione, n. 794 del 2003 cit.); dall’altro che in presenza di una clausola preclusiva la presentazione della domanda si risolve in un adempimento formale che sarà inevitabilmente seguito da un atto di estromissione, con un risultato analogo a quello di un’originaria preclusione e perciò privo di una effettiva utilità pratica ulteriore (Cons. St., Parere n. 149 del 2001, cit.). Inoltre con decisione 12.2.2004 – C7230/02, la Corte di Giustizia C.E. ha rilevato che, nell’ipotesi in cui un’impresa non abbia presentato un’offerta a causa della presenza di specifiche che asserisce discriminatorie nei documenti relativi al bando di gara o nel disciplinare (le quali le avrebbero proprio impedito di essere in grado di fornire l’insieme delle prestazioni richieste), essa avrebbe tuttavia il diritto di presentare un ricorso direttamente avverso tali specifiche, e ciò prima ancora che si concluda il procedimento di aggiudicazione dell’appalto pubblico interessato.Infatti, secondo la Corte, sarebbe eccessivo esigere che un’impresa che asserisca di essere lesa da clausole discriminatorie contenute nei documenti relativi al bando di gara, prima di poter utilizzare le procedure di ricorso previste dalla direttiva 89/665 contro tali specifiche, presenti un’offerta nell’ambito del procedimento di aggiudicazione dell’appalto di cui trattasi, quando persino le probabilità che le venga aggiudicato tale appalto sarebbero nulle a causa dell’esistenza delle dette specifiche.In conclusione qualora la partecipazione ad una procedura di gara risulti preclusa dallo stesso bando, sussiste, secondo detta più innovativa giurisprudenza, l’interesse a gravare la relativa determinazione – a prescindere dalla mancata presentazione della domanda – posto che l’impugnante ha proprio interesse ad impedire lo svolgimento della procedura selettiva (Consiglio Stato, sez. IV, 14 giugno 2005, n. 3113).
L’art. 97 Cost. impone che l’attività della Pubblica Amministrazione sia improntata in modo tale da assicurarne il buon andamento e l’imparzialità. Fanno
da corollario al suddetto principio l’efficienza e l’economicità dell’agire amministrativo. Tali imprescindibili principi rilevano oltremodo in presenza di procedure di tipo negoziale, dove l’interesse generale da soddisfare va conciliato con l’interesse particolare dei contraenti. A tal fine, gli strumenti che regolano e in una qualche maniera limitano l’attività amministrativa sono numerosi. La procedura di selezione dei contraenti, la scelta dell’offerta economicamente più vantaggiosa, il termine perentorio per la presentazione delle offerte, le clausole contenute nel bando di gara ecc. sono tutti elementi necessari a dare concreta attuazione ai criteri innanzi citati. È necessario, di conseguenza, comprendere se questa clausola sia un’indebita limitazione dell’accesso delle imprese interessate – in quanto ictu oculi irragionevole, irrazionale, arbitraria, sproporzionata, illogica e contraddittoria – o sia invece giustificata da un interesse pubblico e quindi rientri nel merito dell’azione amministrativa. Riguardo l’interesse dell’impresa all’impugnativa, immediata o differita, va posto in rilievo che le clausole lesive inserite in un bando di gara, laddove le stesse precludano la partecipazione alla gara da parte di chi vi abbia interesse, devono essere immediatamente impugnate. La giurisprudenza, infatti, è assolutamente ferma nel ritenere che, in un appalto pubblico, l’onere di immediata impugnazione di un bando di gara, da parte delle imprese partecipanti, si pone soltanto per le clausole immediatamente lesive, per esempio quelle che comportino l’immediata esclusione dell’aspirante dalla partecipazione (ex plurimis, TAR Lazio Roma, Sez.II, 1268/2008; C.d.S., Sez. V, 170/2008; TAR Puglia Lecce, Sez. II, 4604/2007; C.d.S., Sez. V, 90/1999; C.d.S., Sez. VI, 707/2000). Nel caso di specie, l’impresa istante si duole, evidentemente, del fatto che le clausole inserite nel bando di gara limitano (rectius: impedisce) la sua partecipazione alla selezione. Secondo la costante giurisprudenza, l’amministrazione appaltante, pur potendo autolimitare il proprio potere discrezionale di apprezzamento mediante apposite clausole, non può assolutamente infrangere il limite della logicità e della ragionevolezza dei requisiti richiesti e della loro pertinenza e congruità rispetto allo scopo perseguito, così da non restringere indebitamente l’accesso alla procedura (ex multis, C.d.S., Sez. VI, 2304/2007; TAR Lazio Latina, Sez. I, 298/2008; TAR Abruzzo Pescara, Sez. I, 155/2008; TAR Piemonte Torino, Sez. II, 400/2008; C.d.S., Sez. IV, 5377/2006; TAR Lazio Roma, Sez. I, 14344/2005). La richiesta della stazione appaltante, cioè, non deve esorbitare la natura, la quantità, l’importanza e l’uso delle forniture o dei servizi, finendo per conseguenza con il manifestare una violazione del limite della logicità e della ragionevolezza dei requisiti richiesti e della loro pertinenza e congruità rispetto allo scopo perseguito. In altri termini, in una procedura a evidenza pubblica, una clausola deve ritenersi lesiva dell’interesse a partecipare se si pone in contrasto con i principi comunitari volti a favorire la più ampia partecipazione e la libertà di concorrenza. Tali principi sono stati recepiti nel d.lgs. 163/2006 (“codice dei contratti”), il cui art. 2 dispone che “l’affidamento e l’esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture, ai sensi del presente codice, deve garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza; l’affidamento deve altresì rispettare i principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché quello di pubblicità con le modalità indicate nel presente codice”. La giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di annotare, anche piuttosto di recente, che “la libertà della stazione appaltante di valutare discrezionalmente le esigenze da porre a base dell’affidamento dell’appalto deve essere contemperata con il rispetto dei principi fondamentali di imparzialità, di par condicio, e di proporzionalità che presidiano l’affidamento degli appalti pubblici, ai sensi dell’art. 2, comma 2, del d.lgs. 163/2006 e s.m.i.” (TAR Lazio Roma, Sez. III-quater, 4828/2007). In effetti, “la giurisprudenza amministrativa, con orientamento univoco, è dell’avviso che appartiene alla discrezionalità della stazione appaltante fissare i requisiti di partecipazione alla singola gara, ‘anche superiori rispetto a quelli previsti dalla legge essendo coessenziale il potere-dovere di apprestare (attraverso la specifica individuazione dei requisiti di ammissione e di partecipazione ad una gara) gli strumenti e le misure più adeguati, congrui, efficienti ed efficaci ai fini del corretto ed effettivo perseguimento dell’interesse pubblico concreto, oggetto dell’appalto da affidare’. Unico limite a detta insindacabilità della scelta si rinviene allorché la stessa sia manifestamente irragionevole, irrazionale, arbitraria, sproporzionata, illogica e contraddittoria, nonché lesiva della concorrenza; la ragionevolezza dei requisiti non è valutata in astratto, ma in correlazione al valore dell’appalto” (TAR Emilia-Romagna Bologna, Sez. I, 1424/2008). Tali principi sono stati recepiti nel d.lgs. 163/2006 (“codice dei contratti”), il cui art. 2 dispone che “l’affidamento e l’esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture, ai sensi del presente codice, deve garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza; l’affidamento deve altresì rispettare i principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché quello di pubblicità con le modalità indicate nel presente codice”. La giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di annotare, anche piuttosto di recente, che “la libertà della stazione appaltante di valutare discrezionalmente le esigenze da porre a base dell’affidamento dell’appalto deve essere contemperata con il rispetto dei principi fondamentali di imparzialità, di par condicio, e di proporzionalità che presidiano l’affidamento degli appalti pubblici, ai sensi
dell’art. 2, comma 2, del d.lgs. 163/2006 e s.m.i.” (TAR Lazio Roma, Sez. III-quater, 4828/2007). L’amministrazione è quindi vincolata sul piano del contenuto delle prescrizioni inerenti i requisiti per la partecipazione alle gare, poiché questi devono sempre corrispondere a esigenze oggettive dell’amministrazione, senza risultare eccessivi rispetto a dette esigenze, ma giustificati dall’oggetto dell’appalto, adeguati alla specificità del servizio e alle particolari caratteristiche della prestazione e della struttura in cui deve svolgersi, nel rispetto dei canoni di ragionevolezza e imparzialità dell’azione amministrativa, nonché dei principi, di derivazione comunitaria, di concorrenza e apertura del mercato degli appalti pubblici.
In materia di requisiti di ammissione alle gare di appalto della Pubblica amministrazione, difatti, le norme regolatrici, sia comunitarie che interne, prevedono fattispecie elastiche, strutturate su concetti non tassativi, ma indeterminati, che implicano, per la loro definizione da parte dell’interprete, un rinvio alla realtà sociale. Il Consiglio di Stato ritiene di dovere muovere dal tradizionale insegnamento dottrinario e giurisprudenziale secondo cui la fissazione dei requisiti tecnici, pur rientrando nella discrezionalità della stazione appaltante, è irrazionale e illogica se impone requisiti di partecipazione incongrui rispetto alle finalità del singolo procedimento di gara o non necessari, in quanto non corrispondono ad alcun reale elemento di specificazione delle potenzialità tecnico-economiche dell’impresa o, in ogni caso, fonte di incertezze e imprevedibili effetti distorsivi della gara. Come è noto, infatti, la normativa vigente non preclude alle Stazioni appaltanti la possibilità di chiedere requisiti ulteriori, logicamente connessi all’oggetto dell’appalto. Per cui nel bando di gara l’Amministrazione appaltante può di certo autolimitare il proprio potere discrezionale di apprezzamento mediante apposite clausole, rientrando nella sua discrezionalità la fissazione di requisiti di partecipazione ad una gara d’appalto diversi, ulteriori e più restrittivi di quelli legali, salvo però il limite della logicità e ragionevolezza dei requisiti richiesti e della loro pertinenza e congruità a fronte dello scopo perseguito (cfr., ex plurimis, Consiglio Stato, sez. IV, 15 settembre 2006 n. 5377). L’interesse pubblico sotteso al rispetto del principio della concorrenza e della massima partecipazione alle gare pubbliche, funzionale alla migliore selezione dell’aggiudicatario, deve necessariamente coordinarsi con la tutela delle specifiche esigenze della stazione appaltante (ma, nel caso di specie, avuto riguardo alla previsione legislativa richiamata, con il generale interesse statuale, potrebbe affermarsi), come tradotte nelle clausole del bando a condizione che esse siano pienamente rispondenti ai criteri di strumentalità con le esigenze evidenziate dall’Amministrazione in ordine ai quali è ammesso il pieno dispiegarsi del sindacato giurisdizionale (altrettanto va detto per quanto attiene alla proporzionalità e adeguatezza all’oggetto dell’appalto ed all’interesse pubblico perseguito che le prescrizioni del bando devono rivestire per non risolversi in un’indebita limitazione dell’accesso alla gara dei soggetti presenti sul mercato o tali da predeterminare l’aggiudicazione o vulnerare la par condicio tra i concorrenti, restringendo ad una rosa ristrettissima le imprese in possesso delle caratteristiche richieste).
Al riguardo la Corte di giustizia CE ha in più occasioni affermato che gli artt. 23, n. 1, 32 e 36, n. 1, della direttiva 92/50 (che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi) ostano a che, nell’ambito di una procedura di aggiudicazione, l’amministrazione aggiudicatrice tenga conto dell’esperienza degli offerenti, del loro personale e delle loro attrezzature nonché della capacità dei medesimi di effettuare l’appalto entro il termine previsto non come "criteri di selezione qualitativa", ma come "criteri di aggiudicazione" (cfr. C.G.C.E., VI, 19.6.2003, in causa C-315/01; id., I, 24.1.2008, in causa C-532/06, punti da 25 a 32). Nello stesso senso si è espressa la giurisprudenza amministrativa di primo grado (cfr. T.A.R. Liguria, I, 27.3.2007, n. 570). In particolare deve ribadirsi che (salva espressa difforme prescrizione di legge: si veda, ad esempio, l’art. 11 del decreto legislativo n. 498 del 1992 comma 5-ter) il punteggio relativo ai vari criteri in caso di aggiudicazione secondo il metodo dell’offerta economicamente più vantaggiosa non possa che essere attribuito in rapporto ed in funzione della valutazione dell’offerta concernente in termini concreti ciò che viene messo a disposizione per l’espletamento del servizio nei confronti della stazione appaltante, con esclusione di qualsiasi considerazione estesa ex se alle qualità generali dei partecipanti: sia per la necessità di adeguare i criteri al mero oggetto di gara e quindi di contratto (come desumibile dall’interpretazione conforme a ragionevolezza dell’art. 83 codice dei contratti, laddove precisa che i criteri di valutazione dell’offerta debbano essere pertinenti alla natura, all’oggetto e alle caratteristiche del contratto), sia in quanto, altrimenti opinando, si avrebbe una predeterminazione degli esiti di gara in favore delle imprese di più rilevanti dimensioni, in violazione di principi basilari e fondamentali come la tutela della par condicio e la tutela della concorrenza. Anche gli arresti giurisprudenziali che in passato hanno affermato che è legittimo prevedere l’attribuzione di punteggi alle esperienze pregresse ai fini della valutazione dell’offerta, hanno precisato che ciò sarebbe possibile soltanto a condizione che tale criterio non abbia influenza decisiva sull’affidamento dell’appalto (in tal senso, espressamente, T.A.R. Lazio, III, 6.7.2005, n. 5553; nello stesso senso cfr. T.A.R. Sicilia, 6.6.2007, n. 1590) e che tale esperienza “valutabile” debba porsi qual elemento che finisce con il ridondare sulla qualità del servizio offerto. In tale contesto di riferimento, invero, la clausola in parola esattamente è stata giudicata illogica ed irragionevole e si pone in contrasto con i principi di favor concorrentiae e non contaminazione tra requisiti partecipativi ed elementi valutativi derivanti dai precetti comunitari. L’interesse pubblico sotteso al rispetto del principio della concorrenza e della massima partecipazione alle gare pubbliche, funzionale alla migliore selezione dell’aggiudicatario, deve necessariamente coordinarsi con la tutela delle specifiche esigenze della stazione appaltante (ma, nel caso di specie, avuto riguardo alla previsione legislativa richiamata, con il generale interesse statuale, potrebbe affermarsi), come tradotte nelle clausole del bando a condizione che esse siano pienamente rispondenti ai criteri di strumentalità con le esigenze evidenziate dall’Amministrazione in ordine ai quali è ammesso il pieno dispiegarsi del sindacato giurisdizionale (altrettanto va detto per quanto attiene alla proporzionalità e adeguatezza all’oggetto dell’appalto ed all’interesse pubblico perseguito che le prescrizioni del bando devono rivestire per non risolversi in un’indebita limitazione dell’accesso alla gara dei soggetti presenti sul mercato o tali da predeterminare l’aggiudicazione o vulnerare la par condicio tra i concorrenti, restringendo ad una rosa ristrettissima le imprese in possesso delle caratteristiche richieste).
Tra i principi che operano con riguardo alla fase dell’affidamento dell’appalto, vengono in rilievo i principi fondamentali del Trattato CE, quelli, cioè, di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione e trasparenza, proporzionalità e pubblicità.In particolare, si può osservare che il principio di pubblicità, il quale appartiene tanto al diritto comunitario quanto a quello nazionale, assume, nella materia delle procedure di aggiudicazione, una valenza decisiva. Per un verso, infatti, esso è strumentale alla realizzazione della parità di trattamento e di massima partecipazione alla procedura; per altro verso, esso è finalizzato a realizzare la massima trasparenza, in ossequio ai principi costituzionali di imparzialità e buona amministrazione. Al riguardo, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha chiarito che nel contesto della disciplina comunitaria il riferimento alla pubblicità nelle gare pubbliche indica l’obbligo per la stazione appaltante di rendere nota la propria intenzione di procedere all’assegnazione della concessione in modo da consentire ai soggetti interessati di partecipare alla selezione (Sez. V, 19 settembre 2008, n. 4520). Anche in materia di bandi di gara la p.a. può esercitare il generale potere di autotutela.L’autotutela può assumere la forma dell’annullamento o della revoca del bando.L’Annullamento presuppone il riconoscimento da parte dell’Amministrazione di vizi di legittimità in capo al bando. Esso spiega i suoi effetti ex tunc, cosicché l’atto si deve considerare come mai esistito.La revoca, invece, trova la sua causa o in vizi originari di merito o nella diversa valutazione che l’Amministrazione compie successivamente delle circostanze e dell’interesse pubblico o, infine, della sopravvenienza di nuovi fatti. Essa, comunque ha effetti ex nunc. L’annullamento d’ufficio si attua per vizi di legittimità in relazione ad un interesse pubblico concreto ed attuale mentre la revoca è un provvedimento con il quale la pubblica amministrazione ritira, con efficacia non retroattiva, un atto inficiato da vizi di merito, ritenuto inopportuno in base ad una nuova valutazione degli interessi spiegati. Comune ad entrambe le fattispecie è la necessità sia dell’informazione dell’avvio del procedimento, sia della congrua motivazione in ordine al potere esercitato. Per ciò che concerne l’informazione dell’avvio del procedimento occorre distinguere il momento in cui l’autotutela viene esercitata. Infatti, l’art. 7 della legge n. 241 del 1990, nel prescrivere che l’avvio del procedimento amministrativo venga comunicato ai soggetti nei cui confronti il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti e a quelli che per legge debbono intervenirvi nonché agli altri soggetti, individuati o facilmente individuabili, che possano subirne pregiudizio, pone al contempo un preciso onere in capo alla p.a. di individuazione di coloro che subiranno un pregiudizio da quella attività amministrativa.
I motivi esposti in narrativa dimostrano la illegittimità delle norme regolatrici del bando di gara predisposto dalla Samte S.r.l., e la loro impugnabilità con conseguenti riflessi negativi per la procedura di provincializzazione del servizio di raccolta e gestione dei rifiuti e la palese ingiustizia in danno della cittadinanza e dei fruitori del servizio, nonché foriero di gravissime ricadute economiche negative sul comparto del lavoro della provincia di Benevento. Pertanto, sussistendone i presupposti, si chiede che la stazione appaltante proceda, in via di autotutela, all’annullamento del bando di gara di cui all’oggetto, predisponendo altro più idoneo e consono alle esigenze della Provincia di Benvento, rispettoso della normativa comunitaria, nazionale e regionale, attento alle esigenze economiche del territorio, che tuteli la pressione fiscale sulla cittadinanza a seguito degli aumenti della Tarsu e che consenta la massima partecipazione delle aziende al servizio de quo".

 

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