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POLITICA

Il mercato dell’acqua

È deprimente il dibattito che fa da sottofondo alla crisi idrica che sta soffocando le nostre comunità, come ormai accade sistematicamente ogni estate. È deprimente il tentativo di lucrare in chiave elettorale sul disastro, è deprimente la ricerca dell’alibi dell’impotenza di quanti dovrebbero dare risposte. Oggi paghiamo il conto salatissimo di oltre mezzo secolo di sprechi e clientele, a cui questa politica non sa e non può rinunciare

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La politica forte sceglie i migliori, la politica debole sceglie i fedeli. Se tanto ci dà tanto dobbiamo ritenere che a queste latitudini la politica è sempre stata debolissima, anche negli anni e nei decenni nei quali questi territori esprimevano il meglio delle classi dirigenti meridionali, ministri e segretari di partito, anche negli anni e nei decenni della grande Dc, quando eravamo noi, si diceva, a comandare l’Italia.

L’emergenza idrica che sta soffocando le nostre comunità, che emergenza evidentemente non è, è figlia di questa verità. Oggi paghiamo semplicemente il conto di oltre mezzo secolo di sprechi e di clientele, mezzo secolo nel corso del quale i nostri apparati l’acqua se la sono mangiata e con l’acqua si sono mangiati le risorse che avrebbero dovuto garantire la tutela della risorsa, la tenuta delle nostre reti idriche, cinque o sei decenni nel corso dei quali la politica, nel nome dell’acqua pubblica, e di una spesa fuori controllo, ha gestito consenso, posti di lavoro, appalti e consulenze.

La condizione che oggi vivono i nostri territori è indegna di uno Stato di diritto, di una democrazia liberale, è indegna di questo tempo. Ma questo tempo è figlio del tempo che fu, questa politica è figlia della politica che fu. E se i giganti sulle cui spalle abbiamo camminato sino a qualche lustro fa non ci sono più sono rimasti gli epigoni di quei giganti, epigoni affetti da nanismo acuto.

È deprimente il tenore del dibattito che ogni estate siamo costretti a subire, è deprimente il tono delle accuse e delle invettive, il sistematico tentativo di trasformare la crisi idrica in un caso, di strumentalizzare le sofferenze dei cittadini in chiave politica. Allo stesso modo è offensivo il sistematico richiamo allo stato pietoso in cui versano le nostre reti, alle ingenti risorse che servirebbero per intervenire in via strutturale ma che non ci sono, da parte di coloro che dovrebbero garantire adeguate risposte alle comunità ma non hanno altra via se non quella di replicare alle accuse degli avversari e di sottrarsi alla rabbia dei cittadini, rifugiandosi nell’alibi dell’impotenza.

Rispetto alla condizione che i territori vivono ormai da vent’anni, una condizione che di estate in estate si fa sempre più insostenibile, non esistono torti o ragioni, non esistono buoni e cattivi. Esiste, anzi esisterebbe soltanto il dovere della responsabilità e del coraggio della verità.

Non ha alcun senso evocare fondi sufficienti per intervenire sulle reti perché quelle risorse non ci sono e non ci saranno, perché seppure ci fossero un investimento di tale portata andrebbe immaginato almeno su un decennio. E non ha molto senso nemmeno continuare nell’eterno dibattito sul ruolo del privato nella gestione del servizio idrico integrato perché purtroppo sappiamo che a queste latitudini, e non ci riferiamo solo all’acqua, sovente la gestione privata finisce con assecondare le peggiori dinamiche del pubblico, mentre sappiamo che nel resto d’Italia, talvolta, accade che la gestione pubblica garantisce efficienza e sostenibilità meglio di qualsiasi privato.

Nell’uno e nell’altro caso è sempre una questione di volontà politica. Perché privato o meno è il pubblico che dà le carte, che detta le regole, che governa i processi. E questa politica, la politica dei nostri consiglieri regionali, dei nostri sindaci, non è nelle condizioni di assumere su di sé la responsabilità del necessario cambiamento di approccio rispetto alla gestione della risorsa idrica perché dovrebbe rinunciare, torniamo al punto di partenza, al primato dei fedeli sui migliori. Dunque dovrebbe rinunciare alla gestione del consenso, dovrebbe trovare il coraggio e la forza di delegare, di fare cento passi indietro, di aprire ad un approccio manageriale, alla logica del mercato, dell’efficienza e della sostenibilità, il che non vuol dire necessariamente aprire al privato ma alle logiche a cui qualsiasi privato deve necessariamente sottostare. Logiche che non prevedono sprechi, debiti e clientele.

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