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CULTURA

“Ntr24 for mission” in Tanzania: l’acqua di Chibumagwa

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“Moyo” che significa “cuore”. In lingua swahili si pronuncia “Maji” ed è forse la parola più emozionante e carica di significato: è l’acqua. Se ci soffermiamo per un attimo a pensarci, spendiamo milioni e milioni di euro e dollari per cercarla su Marte ma facciamo ben poco per conservarla sulla Terra o per donarla alla gente che ha sete. In alcuni paesi dell’Africa è di circa 6 chilometri a piedi la distanza media compiuta ogni giorno per procurarla anche sporca, con un carico medio di 20 chili sulle spalle nel viaggio di ritorno. Mentre in Italia consumiamo ogni giorno 200 litri pro capite.

La storia del villaggio di Chibumagwa è una di quelle fatte di impegno e di entusiasmo, ma è anche una bella riflessione su quale cammino percorrere per sostenere lo sviluppo delle zone più povere del continente. Chibumagwa, nella regione di Singida, entroterra della Tanzania, è un posto che scatena brividi di umanità. Ciò che colpisce è il senso di comunità, la voglia di stare assieme, di aiutarsi a vicenda, con un occhio particolare verso chi è in difficoltà. A Chibumagwa non hanno ancora imparato a sognare e desiderare ‘cose’, perché molti dei beni non si conoscono neanche. A Chibumagwa sognano l’acqua come un bambino nel mondo desidera un gioco nuovo.

Oggi la comunità locale ricorre alla raccolta di acqua piovana per mitigare le siccità ricorrenti. L’aiuto dei missionari del Preziosissimo Sangue in questa realtà è stato fondamentale grazie ad un lavoro specifico di costruzione degli argini del lago per poter contenere e incanalare la risorsa idrica e trattenerla anche per la stagione secca. Un intervento importantissimo, che stava creando un problema sociale ed economico, oltre allo spopolamento del villaggio.

“Il grande problema del lago – spiega il missionario Paul Kitali – era nel periodo secco. L’anno scorso abbiamo avuto una stagione secca e difficile, perché non abbiamo avuto piogge e il lago si è seccato completamente. Quando l’acqua è andata via, la gente non ne aveva per cucinare, lavare e per farne un uso domestico. Allo stesso tempo non ce ne era a disposizione per costruire mattoni e per i prodotti agricoli. Per esempio gli allevamenti di capre, asini e mucche non avevano più acqua a sufficienza. Questo ha rappresentato un grosso problema per il villaggio e la gente ha deciso di andare via. Quando abbiamo chiesto alla Provincia Italiana di aiutarci a contenere l’acqua delle piogge, i missionari sono stati d’accordo e abbiamo rialzato il livello dello sbarramento. Dopo averlo rialzato, quando è iniziata la stagione delle piogge, l’acqua è rimasta. Nel periodo secco molti ragazzi erano andati via dal villaggio verso la diga sulla montagna sopra Dodoma poiché erano pescatori: i pesci del lago erano morti e così anche i due ippopotami che vivevano lì a causa della mancanza di acqua e cibo. I giovani – continua nel racconto – sono andati via, sono rimasti solo le donne e gli anziani perché non c’era alcuna possibilità economica nel villaggio. Dopo aver costruito il terrapieno, l’acqua è rimasta e c’è tutt’ora. Quello che abbiamo fatto è stato andare a prendere i pesci per ripopolare il lago: da marzo i pesci sono pronti per essere pescati. La gente avrà il pesce per la famiglia e potrà venderlo in modo da avere soldi per l’economia domestica. Così i giovani rimarranno nel villaggio. Noi pensiamo che con il livello dell’acqua di oggi, avremo acqua anche per la prossima stagione secca e per 2 o 3 anni. Abbiamo anche tolto il fango dal fondo. E’ stato un grande aiuto per la gente”.

L’impegno dei missionari ha portato anche alla realizzazione di un sistema di approvvigionamento dell’acqua piovana e alla creazione di una cisterna utilizzata dalla comunità, ma soprattutto dai bambini dell’asilo gestito dalla parrocchia.

“Per quanto riguarda l’asilo – prosegue padre Paul –  nella stagione secca abbiamo avuto il grosso problema dell’acqua perché avevamo una sola sorgente per tutto il villaggio. Non avevamo acqua a sufficienza per i bambini, che hanno bisogno di acqua per bere, per la mensa, per lavarsi. Quando abbiamo chiesto alla Provincia Italiana di scavare una cisterna, ci ha aiutato perché così possiamo recuperare l’acqua piovana incanalandola nei tombini che finiscono nel serbatoio. Il risultato: anche i bimbi non hanno più il problema dell’acqua, ne abbiamo a sufficienza perché possiamo filtrarla e usarla per le necessità dei piccoli. Abbiamo eliminato il problema”.

Chibumagwa oggi fa piccoli passi verso il futuro, senza stravolgere le abitudini di vita dei suoi abitanti ma cercando di migliorarne le condizioni. Oggi la cittadina ha anche una sua macina, che tutti i giorni è in funzione. Ogni mattina tante donne l’utilizzano per macinare il grano e il mais. Alle volte sono gli stessi bambini che mandati dalle mamme vanno a prendere la farina che servirà per prepare l’ugi o il chapati.

“Per molto tempo qui a Chibumagwa – spiega padre Paul Kitali – c’era stata una macchina messa dai missionari che funzionava a diesel, ma poi si è rotta e la gente era costretta ad arrivare a Chikuya attraverso la strada asfaltata, a 8 km. La gente faceva fino a 15 km per andare a macinare. E molti avevano bambini e donne. Mettere la macchina per macinare e pulire il mais e il riso è stato un grande aiuto per i genitori perché il bimbo può uscire di scuola, macinare e andare a casa. E anche la qualità della macchina – conclude – è buona e produce una farina di buona fattura”. 

Chibumagwa è un villaggio che, come tutta l’Africa, ha voglia non solo di sognare ma anche di realizzare i propri sogni. Un luogo che ha ancora tante cose da imparare, ma che ogni giorno dà lezioni di vita. Perché qui impari che l’orologio non serve: conta solo la luce del giorno e il buio della sera, l’alba e il tramonto. La notte è fatta solo per dormire e guardare le stelle.

Qui impari ad amare i silenzi, anche perché niente di ciò che dici potrebbe dare un significato in più a quello che vedi. Impari a vivere ciò che ti circonda senza dargli un significato compiuto. Impari a svuotare la mente, a metterti da parte, a condividere.

A Chibumagwa ti senti subito a casa, tutti ti sorridono, ti si avvicinano, ti chiedono chi sei, da dove vieni, come ti chiami, ti stringono forte la mano e ti abbracciano e felici ti dicono “da oggi tu sei mio amico”, facendoti dimenticare tutto ciò che esiste. Perché qui cancelli il tuo mondo e comprendi, all’improvviso, che ne esiste un altro, difficile anche da immaginare, lontanissimo da te.

Ecco perché poi arriva quel senso di sconforto, durante l’ultimo giorno di permanenza, quando stai salutando le persone che hai conosciuto, quando sei già con un piede sul predellino della jeep che ti porterà all’aeroporto. È proprio in quel momento che ti colpisce una sorta di nostalgia. Di quei luoghi, di quelle persone. E dello sguardo felice disegnato negli occhi dei bambini. Non te ne sei ancora andato e già avresti voglia di tornarci. O forse di non andartene più.

Il mal d’Africa ha una sola “cura”: tornare in questo continente ancora una volta, nei suoi paesaggi sterminati, tra la sua gente semplice, tra i suoi bambini capaci di accoglierti con un sorriso senza un motivo apparente. E conoscere quanti, come i missionari di San Gaspare, hanno dato la loro vita per aiutare questa gente. Il mal d’Africa può battere con la cooperazione i mali dell’Africa, che invece sono tutta un’altra storia. Si chiamano fame, mancanza di acqua potabile, diritto all’istruzione negato, AIDS. Per questi mali, con impegno e dedizione, ci sarà sempre qualcosa che possiamo fare.

Mi e’ sempre piaciuto il deserto. Ci si siede su una duna di sabbia. Non si vede nulla. Non si sente nulla. E tuttavia qualche cosa risplende in silenzio. “Ciò che abbellisce il deserto”, disse il piccolo principe, “è che nasconde un pozzo in qualche luogo” (tratto da ‘Il Piccolo Principe’)

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