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CULTURA

La vita in musica di Francesco Tuzio, dagli esordi da dj ai tour con Califano: “Indimenticabile quel viaggio in Jaguar”

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Chi ha vissuto veramente la Benevento degli anni ottanta e novanta quell’evento lo ricorda ancora. Piazza Roma gremita, tremila persone a ballare, anno 1997. Una festa d’addio. Per dirla bene: la festa dell’addio ai piatti di uno dei più noti disc jockey dell’epoca. Roba da duecento serate all’anno. Un successo suggellato da collaborazioni importanti, da Radio Dj fino a Gigi D’Agostino. Francesco Tuzio era all’apice della popolarità. Eppure quella era la notte del rompete le righe. “La gente arrivava fino all’Arco di Traiano, una cosa incredibile, una serata meravigliosa. Indimenticabile. Meglio smettere quando si è al massimo della carriera: l’ho sempre pensato e il ricordo di quella sera rafforza ancora oggi questa mia convinzione”. Insomma: sentiva il bisogno di andare, Francesco. Ed è andato. Senza più fermarsi. Seguendo sempre la sua stella polare, la musica. “Come è iniziata? Dal mio handicap fisico. Impossibilitato a muovermi, trascorrevo il mio tempo ad ascoltare lo stereo e a leggere libri, e tanti erano sulla musica. E quando ho cominciato a camminare questo legame si è rafforzato. Sono diventato Dj studiando i dischi. Perché un disco si studia. Adesso con la tecnologia tutto è diventato più semplice ma negli anni Ottanta molta strumentazione non c’era. C’erano i vinili. E mixare un vinile era tutta un’altra cosa”.

Il ricordo di quelle notti?

“C’è una cosa che mi rende ancora orgoglioso: sono stato il primo Dj in assoluto a lavorare in console con tre piatti da 1200. Uno spettacolo. Avevo già la tastiera a tracolla alla Sandy Marton. Vedevo lontano da questo punto di vista. Acquistavo riviste come Rolling Stone e tramite l’associazione Disc Jockey Italiana – presidente onorario era Renzo Arbore – ricevevo news e aggiornamenti. E poi c’era Riccardo Cioni, il Dj più in voga delle notti riminesi: utilizzava il campionatore. Andai ad ascoltarlo e ne acquistai anche io uno, un Atari 1040-St. Insomma: c’era tanto studio dietro il mio lavoro e chi chiamava Francesco Tuzio sapeva di trovarsi qualcosa di diverso, qualcosa in più. Poi più bravo o meno bravo penso sia stato il pubblico a decretarlo. Abbiamo fatto tante cose belle”.

E poi?

“Poi ho scelto la fonia, prima studio e formazione a Milano e poi Roma dove ho iniziato la mia gavetta con l’agenzia Marsili, la più importante nel campo. Ho iniziato dalle fotocopie e non è un modo di dire. La prima vera esperienza da fonico con Sergio Bruni, l’ultimo baluardo della musica classica napoletana. Quindi Mino Reitano e Rita Forte. Ho spaziato per tutti i generi musicali, lavorando anche per artisti come James Brown, Michel Petrucciani, Dee Dee Bridgewater. L’esperienza con la musica internazionale è stata decisiva sul mio percorso: con le schede tecniche inviavano anche la planimetria centimetro per centimetro con la posizione esatta degli strumenti. Roba che in Italia si è cominciata a fare da poco. Il risultato, a livello sonoro, era di un livello decisamente più alto”.

Nel tuo percorso professionale hai incrociato anche alcuni mostri sacri della musica italiana, a partire da Franco Califano

“Ancora ricordo quando mi chiamò la segretaria dell’agenzia: “Gianni Marsili ti deve parlare”. La prima reazione fu “e che ho combinato?”. Temevo un allontanamento. E invece mi disse “sei pronto”. E mi diede la cartellina di Franco Califano. “Da ora lo gestisci tu”. Chiusi la porta e uscii. E come si vede in certi film americani, iniziai a saltellare di gioia”.

E il primo incontro con il Califfo?

“Mi guardò incredulo. Una cosa che succedeva spesso. Nel mondo della musica e dello spettacolo, a certi livelli, la scoperta dell’handicap suscitava ancora sorpresa. E tu dovevi fare il doppio per dimostrare di meritarti quella opportunità. Io lo facevo seguendo le mie tre regole: educazione, cultura, stile”.

Ricordiamo ancora l’ostracismo della Rai nei confronti di Pierangelo Bertoli

“C’è ancora qualche reticenza. Non la condivido, ovviamente, ma neanche condanno nessuno. Sorrido e vado avanti. E ti dico che ho avuto il piacere enorme di conoscere Pierangelo Bertoli, di farmi lunghe chiacchierate con lui. Che poi “A muso duro” è la mia canzone preferita. A Sanremo ci tornò in seguito con i Tazenda. Alcuni videro in quel connubio una sorta di forma di accettazione dei normodotati nei confronti di un portatore d’handicap. Non fu quello. Fu un incrocio di voci particolari. Venne fuori una interpretazione che ancora oggi mette la pelle d’oca”.

Torniamo al tuo lavoro con Califano: quanto è stato bello e complicato gestire un artista accompagnato sempre da tante leggende.

“E molte erano fondate. Era davvero il cantante più amato e seguito della malavita romana. In una tournée organizzammo trenta repliche nella Capitale e venne a trovarlo di tutto e di più. Ma era un artista straordinario, con tante peculiarità. L’unico cantante a mangiare prima dello spettacolo: nessuno lo faceva per una questione di diaframma. E poi conservo un viaggio con lui indimenticabile”.

Che viaggio?

“Roma-Torino andata e ritorno. Con la sua Jaguar, ad agosto. Quaranta gradi fuori e il climatizzatore sparato a palla. Mi raccontò storie bellissime della sua vita, l’amicizia con Mimì (Mia Martini) e Loredana. E mi spiegò come nascevano le sue canzoni: mai a tavolino, scritte tutto di impulso, il più delle volte appena sveglio. Così anche Minuetto, una storia reale. Conservo diverse registrazioni inedite, senza filtri, realizzate da me”.

E poi Fred Bongusto?

“Fu il suo tour manager a contattarmi, a chiedermi se volessi gestire io Fred. “Non posso, sono troppo impegnati con Franco” – gli risposi. Ma mi combinò un appuntamento. Ci incontrammo a pranzo e mi fece un’offerta economicamente indecente. E irrinunciabile. Con Fred Bongusto penso di aver girato per tutti i luoghi più chic d’Europa”.

Alla fine possiamo dire che ne è valsa la pena dare l’addio ai piatti

“Lascia stare la mia intuizione dell’epoca per la fonia. Penso davvero sia meglio lasciare quando si è ancora al massimo delle tue possibilità. Non a caso i grandi artisti che lo hanno fatto poi si sono trasformati in miti. Penso a Battisti o a Mina”.

Il tuo viaggio in musica però continua: quel Dj ora lavora con la lirica

“E sì, con il maestro Quadrini. Dalla dance alla lirica, li ho fatti tutti”.

E poi c’è l’Accademia delle Opere, di cui sei presidente: il consiglio che non manca mai per i ragazzi?

Mai perdere l’umiltà, mai sentirsi arrivati. Bisogna sempre avere sete e pensare che c’è qualcuno che può darti un consiglio utile. Per il resto di teoria ne facciamo anche troppa. E’ sul campo che si cresce e la peculiarità dell’Accademia è proprio questa. Mi piace mettere alla prova i ragazzi, anche se sbagliano”. 

 

 

 

 

 

 

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