Opinioni
Sulle aree interne il sole è sempre basso e non piove mai
Se Sannio e Irpinia continuano a soffrire la propria marginalità non è semplicemente colpa dei numeri, del peso ininfluente sul piano della rappresentanza, ovvero di una Regione da sempre matrigna. La responsabilità è innanzitutto nostraAscolta la lettura dell'articolo
Si racconta che un bel giorno di qualche anno fa, quando mancavano un paio d’anni alla fine del primo mandato di De Luca a Santa Lucia, al Centro direzionale di Napoli si tenne una riunione di maggioranza, convocata d’urgenza proprio dal governatore. Non ne poteva più delle continue richieste che intasavano l’agenda in segreteria, delle continue pressioni di sindaci, amministratori e portatori d’acqua alla spasmodica ricerca di un finanziamento per nome e per conto di questo o di quel consigliere regionale: «Come ve lo devo dire che il tempo dei finanziamenti a pioggia, della spartizione sistematica, è finito? Mettetevelo in testa, le processioni non le voglio più vedere!».
Seguirono lunghi attimi di silenzio. Poi, all’improvviso, il genio. Dalle retrovie un potente consigliere regionale eletto nell’area metropolitana di Napoli, con sorriso beffardo si rivolse al governatore: «Presidè ma di che vi lamentate, qua c’è sempre il sole e quando piove, si sa, piove sempre a Salerno».
Questo gustoso aneddoto ci restituisce l’esatto contesto nel quale, da sempre, si declina il rapporto tra governo e rappresentanza regionale. La partita si gioca sul terreno della gestione ed è una partita che fino ad oggi, come vedremo, le nostre aree interne non hanno nemmeno potuto giocare.
Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, dal primo Bassolino ai giorni nostri, Sannio e Irpinia hanno sempre sofferto la propria marginalità, hanno sempre sofferto le scelte di una Regione matrigna. Fino a qualche anno fa eravamo abituati a denunciare il napolicentrismo di Palazzo Santa Lucia, un napolicentrismo che ovviamente gravava, seppur non nella stessa misura, anche sulle altre province. Oggi, ovvero da otto anni a questa parte, abbiamo sostituito il napolicentrismo con il salernocentrismo, condividendo, paradossalmente, il peso della marginalità anche con Napoli e la sua area metropolitana, che tuttavia, in ragione del suo peso demografico e di rappresentanza, continua ad esercitare una ineludibile centralità.
A ben vedere, fin tanto che Irpinia e Sannio hanno avuto la capacità di esprimere sul piano della rappresentanza parlamentare, e persino del governo nazionale, riferimenti in grado di incidere sull’agenda del Paese, sulle dinamiche politiche e legislative, depositari di un consenso diffuso e strutturato, terminali di sistemi di potere radicati che tenevano insieme l’intera filiera istituzionale, con una sfera di influenza che andava ben oltre i perimetri provinciali, sono riuscite a resistere anche sul terreno della gestione regionale, quantomeno ad attutire gli effetti della propria marginalità. Nello stesso momento in cui hanno perso questa capacità, nello stesso momento in cui hanno smarrito ogni centralità nelle dinamiche parlamentari, ogni influenza sulla vicenda politica nazionale, è accaduto che quei sistemi di potere hanno cominciato a sfaldarsi, le filiere istituzionali sono implose nella parcellizzazione, le classi dirigenti si sono trasformate in ceti dominanti.
Il risultato è che la logica dei numeri ha prevalso su quella della politica e la logica dei numeri, c’è poco da fare, inesorabilmente ci condanna. Irpinia e Sannio contano più o meno 700mila abitanti ed esprimono in totale sei consiglieri regionali. Il nostro peso sul piano della rappresentanza è irrisorio, del tutto ininfluente. I numeri di cui disponiamo non ci restituiscono un potere contrattuale sufficiente ad orientare l’agenda di Santa Lucia. Avremmo, però, tutte le condizioni per abbattere il muro di questa marginalità in considerazione della funzione strategica che i nostri territori dovrebbero e potrebbero svolgere per il resto della regione. Pensiamo alle risorse primarie, alle potenzialità di questi territori in relazione alla conversione ecologica, pensiamo agli spazi di cui disponiamo per consentire al sistema Campania di rigenerarsi nella sfida infrastrutturale, così come in parte sta accadendo con la linea dell’Alta Velocità, pensiamo alla grande partita della logistica e della retro portualità.
Il punto è che invece di fare sistema, invece di ricercare l’unità su di una visione di sviluppo regionale cucita sulla centralità delle aree interne, invece di costringere Palazzo Santa Lucia a fare i conti con quella visione, ci siamo divisi praticamente su tutto. Avremmo dovuto e potuto affrontare la sfida infrastrutturale nell’unità, in ossequio ad una visione comune, ma ancora oggi continuiamo a litigare sulla logistica senza comprendere che Ponte Valentino e Valle Ufita rappresentano due facce della stessa medaglia, complementari e non in contrapposizione.
Avremmo dovuto accettare la sfida della concertazione istituzionale per affrontare il nodo della riorganizzazione dei servizi, a partire dall’acqua, ed invece abbiamo preferito fare un passo indietro, voltando le spalle alla sfida dell’ambito unico. Avremmo dovuto fare altrettanto sulle politiche di programmazione, provando ad aggregare sistemi territoriali omogenei a cavallo tra le due province in una logica di area vasta ed invece non siamo andati oltre teoriche ipotesi di aggregazione che hanno finito per determinare ulteriori divisioni.
Avremmo dovuto e potuto mettere in campo azioni sinergiche di promozione territoriale, puntando sulla qualità delle nostre filiere enogastronomiche, incrociando storia e paesaggi, mentre l’unica strada che continuiamo a percorrere è quella dei finanziamenti a pioggia funzionali a sostenere eventi slegati gli uni agli altri. Avremmo dovuto e potuto ragionare di come mettere a sistema i centri di sapere, di come investire sulla ricerca e sulla sperimentazione, mettendo in connessione università, poli di alta formazione e filiere produttive, perché il primo investimento che dovremmo fare per provare a creare le condizioni per la sopravvivenza di questi territori è quello sul capitale umano.
Non abbiamo fatto nulla di tutto ciò, abbiamo fatto il gioco di chi ci voleva divisi e ci siamo accontentati di rincorrere briciole di gestione più funzionali alla sopravvivenza delle singole consorterie politiche che al reale interesse dei territori e delle comunità. Questa condizione ha trasformato le istituzioni locali, Province, comuni, partecipate ed enti di servizio in fortezze da difendere o da espugnare, in strumenti di battaglia politica, tali per cui anche la più strategica delle decisioni viene assunta in funzione dell’interesse politico da perseguire, in funzione del consenso.
Abbiamo dimenticato, ovvero non siamo stati in grado di tenere fede all’insegnamento della Storia, al principio secondo cui da queste parti il futuro non passa a prescindere ma passa solo se lo facciamo passare noi con la forza della politica, con la credibilità delle idee, con la capacità di dettare l’agenda.
Orfani dei giganti sulle cui spalle abbiamo camminato per decenni, abbiamo smarrito la capacità di volgere lo sguardo oltre l’orizzonte dell’imminente. Ci siamo abituati al sole basso e alle sue ingannevoli ombre.