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Comune di Benevento

“La bella storia” di Maurizio De Giovanni: lo scrittore ringrazia per l’intitolazione della strada a Vincenzo Russo

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“Vi voglio raccontare una storia triste, con un lieto fine. La storia comincia in un tempo lontano, quando i sentimenti avevano un altro peso e le canzoni non nascevano per un palcoscenico, ma per dire qualcosa a qualcuno. Comincia vicino a piazza Mercato, quando l’ottocento stava per lasciare il campo al novecento, questione di poco.

In vico delle Ferze al Lavinaio, al numero venticinque, viveva una famiglia povera, anzi poverissima. Il padre, Giuseppe, faceva il calzolaio e si ammazzava di fatica perché con la moglie, un’orfana dell’Annunziata di nome Lucia, aveva avuto la benedizione di cinque figli. L’angusta abitazione, un seminterrato, era molto umida e tutti erano ammalati; ma, come si diceva allora, l’importante era volersi bene. E la famiglia Russo era piena d’amore.

Giuseppe se ne andò presto, non erano tempi in cui si viveva a lungo. Il figlio maggiore non era ancora in grado di prendere in carico la bottega e si impiegò in una fabbrica di guanti, dove le sostanze chimiche che doveva usare non contribuirono certo a migliorarne la salute già cagionevole. Vincenzo, quello era il nome del ragazzo, non aveva però solo il lavoro come motivazione per sopravvivere: aveva anche un sogno. Il suo sogno si chiamava Enrichetta, e abitava nel palazzo di fronte, al piano nobile, ed era la più bella donna dell’universo; lui però non poteva nemmeno parlarle, perché essendo figlia di un orefice apparteneva a una classe sociale superiore: per le convenzioni del tempo, un operaio non aveva la facoltà di rivolgersi direttamente a una ragazza di quel rango. Il giovane cominciò a frequentare la scuola serale, per poter almeno immaginare, un giorno, di scriverle; e continuò a nutrire quel folle sentimento.

La famiglia Russo aveva un perenne bisogno di risorse, e quando si sparse la voce che Vincenzo fosse un assistito si decise di approfittarne. L’assistito era una figura assai popolare, all’epoca, e il giovane ne aveva tutte le caratteristiche: malato, gracile, sensibile e raffinato nonostante l’estrazione, perfino in grado di leggere e scrivere; l’interlocutore perfetto delle anime del purgatorio, per fornire sogni da interpretare per giocare al lotto. Vincenzo, che in realtà non sognava nulla al di là di Enrichetta, inventava avventure mirabolanti che i giocatori andavano ad ascoltare, per tradurle in numeri talvolta perfino vincenti. La sua fama arrivò all’orecchio di un appassionato scommettitore, che quando fece il suo ingresso nel seminterrato del giovane provocò in Vincenzo una crisi di coscienza. Si trattava infatti di Edoardo Di Capua, uno tra i maggiori musicisti dell’epoca (autore tra l’altro di ‘O sole mio). Riconoscendolo, Russo confessò di non volerlo truffare, ma in cambio della visita di volergli donare un testo.

Dapprima Di Capua si irritò per l’inutile passeggiata; poi, una volta giunto a casa, lesse il foglietto e rimase colpito. Senza rivolgersi alla ragazza col suo vero nome, per ragioni di convenienza, Vincenzo aveva messo su carta il sogno che un giorno lei si affacciasse alla finestra, che lui guardava ininterrottamente dalla strada cogliendo solo il suo passaggio fugace, e finalmente gli rispondesse. Di Capua musicò il testo, e nacque Maria Mari’.

Attorno a quell’unico, meraviglioso sentimento esclusivamente contemplativo di un giovane poverissimo e malato, che non poteva rivolgersi direttamente alla donna che amava nemmeno per manifestare il proprio amore, nacquero negli anni successivi altre straordinarie, dolcissime poesie che per mano di Di Capua, ormai divenuto amico del poeta, furono tradotte in canzoni che hanno fatto la storia della musica napoletana. I’ te vurria vasa’, per esempio; o Torna maggio. Le liriche, bellissime e accorate, descrivono sempre e soltanto la stessa situazione: una fanciulla addormentata e un uomo che la osserva, chiedendosi cosa stia sognando o se, una volta sveglia, si affaccerà dalla sua finestra.

Vincenzo morì presto, purtroppo. Aveva meno di ventott’anni, e non parlò mai alla sua Enrichetta che pure lo aspettava, reclusa nelle maledette convenzioni che le impedivano di rispondere a un sorriso. Questa, lo vedete, è una storia triste. Un ragazzo, il suo immenso amore, un talento altissimo che non gli portò nessun beneficio e che anzi lo fece morire dannato, come si capisce dal testo della sua meravigliosa Urdema canzone. E la solitudine disperata del cuore di un poeta vissuto e morto in un sottoscala.

Il sottoscritto porta in giro uno spettacolo, santificato da tre incredibili musicisti (Marco Zurzolo, Marco De Tilla e Carlo Fimiani) e da una cantante dalla voce di un angelo (Marianita Carfora). In esso si racconta, insieme ad altre, la storia di Vincenzino e del suo amore. Uso concludere il racconto rappresentando un peso che ho nell’anima: che la città dove questo poeta che per me non è secondo ai grandissimi del suo secolo ha vissuto ed è morto, non ha ritenuto di intitolargli uno dei suoi numerosi vicoli, o una strada o una piazza; cosa che invece ha tributato a re, regine e principi che di Napoli non si sono mai curati se non come periferico possedimento da sfruttare, o a generali e ministri che addirittura si sono macchiati di orribili delitti nei confronti di questo popolo, uccidendo civili a migliaia per l’interesse degli stati per i quali lavoravano.

Non è un discorso revanscista o peggio ancora neoborbonico, chi mi conosce sa bene quanto siano lontani da me questi sentimenti. E’ soltanto che mi piacerebbe, e forse non solo a me, che fosse riconosciuta la grandezza di un immenso, giovane e gentile poeta che ci ha regalato i suoi sogni disperati.

Qui però arriva il lieto fine. Con gli artisti di cui sopra siamo stati invitati a rappresentare il nostro piccolo spettacolo a Benevento, nel bellissimo teatro appena restaurato; e in platea c’erano un sindaco sensibile e innamorato della nostra terra, e un assessore alla cultura intelligente e pronto. Si sono guardati, hanno sorriso e si sono messi al lavoro.

Vincenzo Russo, e lo dico con commozione e gratitudine immense, avrà la sua strada. L’avrà nel bellissimo capoluogo sannita, nel quartiere Pacevecchia; e l’avrà per, così recita la motivazione della delibera, “il contributo che la sua poesia ha dato e continua a dare alla diffusione, alla potenza e all’orgoglio dell’identità campana; rendendo merito a ciò che il talento e la volontà possono fare al servizio di un unico, fortissimo sentimento”.

Non c’è, credetemi, gioia artistica più grande di questa. Nessun premio letterario potrebbe mai superarla; e chi scrive vorrebbe tanto che da qualche parte, sopra le nuvole, due ragazzi che finalmente si sono trovati in un mondo migliore possano sorriderne fieri. Grazie, con tutto il cuore, a Clemente Mastella e ad Antonella Tartaglia Polcini: per mettere il cuore nel loro lavoro di amministratori pubblici. Evidentemente, si può fare”. (Maurizio De Giovanni)

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