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Aspetta 15 anni per ottenere quanto gli spetta da un fallimento

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Con il decreto depositato il 03/01/2011 la Corte d’Appello di Roma, Sezione equa riparazione, ha condannato il Ministero della Giustizia a risarcire il danno morale subito da un lavoratore per la eccessiva durata della procedura fallimentare. Nello specifico, il lavoratore aveva presentato, in data 29/06/1992, istanza di ammissione al fallimento della CO.MER. – Costruzioni Meridionali – S.R.L., pendente innanzi al Tribunale di Benevento, tramite l’Ufficio Vertenze e Legale della CGIL di Benevento, e soltanto in data 25/05/2006, cioè dopo circa 14 anni, con la pubblicazione del piano di riparto finale, aveva finalmente ricevuto dagli organi della procedura una percentuale delle somme richieste.

La Corte ha ritenuto che la durata ragionevole della procedura fallimentare in questione dovesse essere di 5 anni, e che pertanto vi fosse un ritardo pari a 8 anni ed 11 mesi. Pertanto, dopo aver quantificato il danno non patrimoniale subito dal lavoratore nella misura minima prevista dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, e cioè 1.000,00 euro all’anno, ha liquidato in suo favore la complessiva somma di € 8.916.67 (1.000,00×8+1000,00/12×11=916,67), oltre interessi legali dalla data di deposito del ricorso. Ricordiamo che la legge 24/03/2001 n. 89 (meglio conosciuta come Legge Pinto) ha introdotto in Italia il diritto al risarcimento del danno per eccessiva durata del processo, per violazione dell’art. 6 par. 1 della CEDU.

Per giurisprudenza costante della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la durata di un processo è irragionevole qualora superi i tre anni per il primo grado di giudizio, i due anni per il secondo ed un anno per ciascuna fase successiva (in tal senso anche la recente sentenza della Corte di Cassazione 14/2008).  “La decisione della Corte d’Appello di Roma – afferma Antonio Aprea, segretario generale della CGIL di Benevento – conferma l’efficacia della scelta della nostra Camera del Lavoro di offrire, caso unico forse in Italia, questo ulteriore servizio ai lavoratori che si rivolgono alle nostre strutture. E’ inaccettabile il fatto che nel nostro Paese un lavoratore, titolare di un diritto, quale quello alla retribuzione, assicurato dall’art. 36 della Costituzione per garantire a se stessi ed alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa, debba aspettare a volte anche 15 anni per ottenere quanto gli spetta (peraltro quasi sempre in misura parziale) da una procedura fallimentare. Allo stesso modo è assurdo il fatto che un lavoratore debba attendere per una causa di lavoro, considerando il primo grado o l’appello, anche 9-10 anni per avere una sentenza definitiva, che spesso si rivela priva di utilità perché nel frattempo l’azienda è scomparsa o decotta. Oppure che un anziano debba attendere 8 anni per ottenere una prestazione pensionistica,  considerando sempre il doppio grado di giudizio. Attuare la Costituzione significa prima di tutto garantire un giusto processo che per tempi e modalità riduca il rischio di discriminazioni originate da differenze sociali, di razza o di sesso.  E’ questa la vera riforma della giustizia che chiedono i lavoratori italiani: non quella dell’impunità per i potenti voluta dall’attuale Governo: una riforma che non passa certo per la delegittimazione della Magistratura ma per un serio programma di investimenti nella Giustizia in termini di risorse economiche ed umane, non di tagli e vuoti proclami”.

L’Avvocato Pasquale Biondi, che segue questa tipologia di contenzioso per conto della CGIL di Benevento, aggiunge: “I risultati che abbiamo ottenuto dai Giudici nazionali sono importanti, ma non ancora del tutto soddisfacenti. Innanzitutto i Giudici italiani continuano a liquidare il risarcimento soltanto per gli anni di eccessiva durata del processo, mentre la Corte europea stabilisce un risarcimento per ogni anno di durata della causa, una volta che risulti superata la durata ragionevole della procedura. In secondo luogo i Giudizi nazionali si ostinano a liquidare ai lavoratori la misura minima del risarcimento, e cioè soltanto 1000,00 euro all’anno, in contrasto, anche in questo caso,  con la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo la quale il risarcimento andrebbe maggiorato di 2000,00 euro all’anno, considerata la natura retributiva del credito richiesto.

Fonte | www.cgil.it

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