CRONACA
I 25 anni in toga di Angelo Leone, avvocato penalista: “Certe vicende ti segnano ma in Aula bisogna restare distanti. No a un cliente? I reati non si scelgono”

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Sono trascorsi più di cento anni da quando, nel 1921, uno dei Padri Costituenti della Repubblica Italiana, Piero Calamandrei pubblicava per ‘I quaderni della voce’ un suo pamphlet: “Troppi avvocati!”. Andrebbe riletto perché un secolo dopo quelle pagine ancora non si ingialliscono. Pensiamo solo alle parole con cui si rafforzava il principio dell’eticità della professione legale: “… lo Stato conserva e disciplina gli avvocati perché essi esercitano una funzione di carattere pubblico. L’esistenza dei professionisti legali non si giustifica più se non quando si veda in essi dei collaboratori, anziché dei mistificatori, del giudice”. Ma sempre attuale è pure la riflessione sulla quantità degli avvocati in circolazione: 25mila su 39milioni di abitanti, agli inizi del secolo scorso; 240mila su 59milioni di abitanti ai tempi nostri. E visto che tre indizi fanno una prova, la contemporaneità del pensiero di Calamandrei si ritrova anche nel racconto di uno dei penalisti più stimati – parlando di artisti diremmo quotati – del Sannio ma non soltanto del Sannio: Angelo Leone. Uno che questo mestiere l’ha scelto (e lo risceglierebbe) per passione.
Passione ereditata?
“Mio nonno avvocato, mio padre avvocato. Diciamo che la passione per la materia si respirava nell’aria, a casa. Ma devo anche dire che non ho mai avvertito alcuna forzatura. Magari da bambino sognavo di fare quello che sognano tutti i bambini ma iniziata l’età della maturazione ricordo questo: volevo diventare un avvocato. Anzi no: volevo diventare un avvocato penalista, diciamola tutta”.
Perché?
“Perché è quella che attira le maggiori attenzioni, pure dal punto di vista giornalistico. E poi mio padre col suo studio faceva sia civile che penale: mia sorella Biancamaria ha scelto civile, io il penale”.
Il debutto? Il primo processo?
“Ricordo il primo processo di un certo processo. Un caso di omicidio e io difendevo la parte civile, la famiglia della vittima. Avevo una trentina di anni, ero soltanto agli inizi e subito mi ritrovai in Corte d’Assise. Una emozione che tanti avvocati magari non hanno la fortuna di provare in tutta la carriera. E dall’altra parte, come ‘avversario’, non un nome qualsiasi ma Alfonso Martucci, uno degli avvocati più rappresentativi in Campania e non soltanto in Campania. Insomma, una bella sfida”.
Quante ne sono seguite?
“In venticinque anni? Impossibile tenere il conto. Ma la media settimanale, mantenendoci bassi, è di una quindicina di processi”.
Un caso che l’ha particolarmente coinvolta?
“Non potrò mai dimenticare un processo per omicidio. Si trattava di una persona scomparsa, ritrovata morta dopo quaranta giorni. Il cadavere era in condizioni pregiudicate. Impossibile restare indifferenti”
Mai detto di no a un caso?
“I reati non si scelgono. Magari può scattare un discorso di empatia con il cliente: con alcuni scatta subito, con altri meno. E sulla linea difensiva si può convergere ma anche no. E allora le parti fanno le proprie valutazioni. Ma poi un avvocato deve essere capace di distaccarsi dal cuore della vicenda. Anche perché le questioni sono spesso delicate: omicidio, pedofilia… per offrire un servizio all’altezza devi per forza mantenere una certa distanza. C’è uno schema deontologico da rispettare. Poi è inevitabile che certe vicende ti lascino il segno, non lo nego. Ma nell’aula del Tribunale, quando si indossa una toga, non ci si può far condizionare da fattori esterni”.
La cronaca racconta anche le mutazioni di una società: in venticinque anni quanto è cambiato il suo mestiere?
“Venticinque anni cambiano tanto, cambiano le persone e dunque anche gli avvocati e i magistrati. Negli ultimi tempi, ad esempio, è cresciuta esponenzialmente la sensibilità nei confronti della violenza di genere. Di conseguenza anche l’attenzione del legislatore è aumentata. Con l’introduzione del ‘Codice Rosso’ l’attività di investigazione richiede tempi stringenti, azioni immediate. L’importante è non perdere il focus su altri reati”.
Succede?
“Succede perché occorrerebbe una riforma organica, a partire dal dato del personale. Per capirci: se i poliziotti restano dieci e li sposti tutti in una direzione, le altre restano scoperte”.
E per restare alle “altre direzioni”: quale altro tipo di reato è in crescita?
“Quelli di natura fiscale e finanziaria. I reati fallimentari – complice una congiuntura economica non favorevole, specie per le vicende legate al Covid – sono in forte aumento”.
Lei ha la fortuna – anzi, il merito – di lavorare ovunque in Italia: rispetto agli altri territori, Benevento è isola felice o no?
“Sono orgogliosamente Beneventano. E sono contento di vivere qui, sia da cittadino che da padre perché so che un figlio può passeggiare lungo Corso Garibaldi senza incorrere in particolari rischi. Quindi sì, reputo Benevento – tutto sommato – ancora un’isola felice pure perché non c’è quel controllo capillare del territorio da parte della criminalità che invece esiste altrove. E infatti da avvocato penalista dovrei essere meno contento: non c’è quella mole di lavoro tale da soddisfare più di 2mila legali. Poi mi sembra evidente che parlare di isola felice non vuol dire abbassare l’attenzione rispetto a fenomeni criminosi che comunque esistono”.
Quindi è vero che sono troppi, a Benevento, gli avvocati…
“Lo dicono le statistiche. Penso sia una delle prime Città d’Italia nel rapporto tra abitanti e avvocati. Forse negli ultimi anni il trend ha cominciato a cambiare. D’altronde i costi dell’Ordine e della Cassa Forense sono alti e spesso i guadagni non riescono a coprirli. In diversi si stanno cancellando dall’Albo, scegliendo magari di impiegare la propria professionalità nel Pubblico, che garantisce maggiore serenità, turni di lavoro più umani. Fare l’avvocato – ancor di più il penalista – vuol dire lavorare anche 13/14 ore al giorno, senza conoscere Pasqua, Natale o Ferragosto. Non puoi programmare una vacanza con la certezza di farla”.
La giustizia resta uno temi più discussi nel Paese: si continua a parlare di separazione delle carriere dei magistrati, il suo parere?
“Per mia formazione e cultura non ho mai fatto politica attiva, neanche quella forense. Il mio ruolo di presidente del Consiglio Distrettuale di Disciplina, inoltre, mi impone una certa distanza… Accetto ciò che gli altri – quelli deputati a decidere – decidono. E poi il mio punto di vista potrebbe non essere interessante. Dico, però, che a Benevento c’è un contesto positivo, con una magistratura attenta, seria e che non si lascia influenzare da fattori esterni. Per quanto riguarda la sezione Penale, poi, possiamo contare su un presidente di valore come Sergio Pezza. Ci fossero più Pezza in giro per l’Italia di certe questioni neanche si parlerebbe”.
Percepisco una certa ritrosia nei confronti della politica attiva
“Non è disprezzo, attenzione. E’ che ho la fortuna di lavorare tanto. E penso che ai clienti vada destinata la massima attenzione: è questa la prima cosa che insegno ai miei collaboratori. Lo stesso vale per la politica, è una cosa altrettanto seria e richiederebbe la medesima attenzione e il medesimo impegno. Insomma, o l’una o l’altra. E poi si dice sempre che la politica è l’arte del compromesso, no? Ecco: io non sono persona da compromessi. Fare politica, dunque, significherebbe sottrarre tempo alla mia professione e perdere la mia libertà di scelta e di decisione”.
Torniamo alla professione, allora. La butto lì: lei da quale suo collega si farebbe difendere?
“Questa è proprio scomoda… Sono cresciuto seguendo mio padre, osservando i processi e coltivando una grande ammirazione per quella generazione di avvocati. Ma quei riferimenti assoluti oggi non ci sono più. Ci sono, però, tanti colleghi di qualità. Mettiamola così: sceglierei in base alla natura del reato”.
Se suo figlio volesse seguire le sue orme? Che consiglio darebbe? Vale per tutti i giovani che intendono avvicinarsi all’avvocatura
“Proprio l’altro giorno discutevamo di questo. Mio figlio ha 15 anni e dunque le sue idee sono in evoluzione. La penultima era di fare il cardiochirurgo e mi piaceva. Ma adesso percepisco una crescita di interesse verso quello che faccio. Lo incuriosisce vedermi il sabato e la domenica studiare i fascicoli, preparare i processi. Intimamente non nego che sarei contento se optasse per questa strada. Ma sarà una scelta sua. Anche perché essere figlio d’arte non è cosa semplice. Lo so perché ci sono passato. E’ come se dovessi sempre dimostrare di non essere una mera derivazione di tuo padre. Nel caso, comunque, a lui come ad altri ragazzi direi che questa è una professione che non si può scegliere come ripiego. Non si può fare perché non hai altro da fare. Ancora di più oggi l’avvocato lo fai per passione. Una passione fortissima considerati i sacrifici a cui sei chiamato, i chilometri che devi percorrere, le pressioni che devi affrontare. Fino a quindici anni fa c’era anche la ragione economica, il guadagno alto. Oggi tutto è cambiato, l’impoverimento generale a cascata riguarda anche la professione dell’avvocato. E dunque non si scappa, ai ragazzi dico: o lo fate per passione o meglio che fate altro”.