Opinioni
‘O pallone è n’ata cosa
La fede calcistica è parte sostanziale dell’educazione sentimentale di tutti noi, scandisce l’incedere della vita delle nostre comunità, lega generazioni. Dunque non è mai solo calcio ma è parte della narrazione di un’identità, la parte spesso più istintiva, immediata, irrazionale. Ma cedere alla semplificazione dei sentimenti, salutare uno scudetto come il segno tangibile di un nuovo Risorgimento, una retrocessione come una condanna all’agonia, una faticosa militanza in serie C come uno schiaffo alla storia vuol dire specchiarsi in una narrazione macchiettistica, vuol dire, per certi versi, rifugiarsi nel più comodo degli alibiAscolta la lettura dell'articolo
Se è ridicola la pretesa di individuare nella vittoria del terzo scudetto del Napoli il segno, il compimento o la genesi del riscatto partenopeo è altrettanto grottesca la tentazione di ricercare nella retrocessione del Benevento Calcio la fine della storia, ovvero nei disastri collezionati in questi anni dall’Unione Sportiva Avellino, solo per restare al calcio, l’istantanea di una provincia morente.
Intendiamoci, la fede calcistica è parte sostanziale dell’educazione sentimentale di tutti noi, irpini o sanniti, beneventani o avellinesi, napoletani o salernitani. Ed è vero, il calcio scandisce l’incedere della vita delle nostre comunità, colora le nostre stagioni esistenziali, lega generazioni e rappresenta l’ultima occasione di partecipazione popolare, l’ultimo rito collettivo e identitario nel Paese dei campanili.
Il calcio si alimenta di storia e simboli, di prosa e poesia. Dunque non è mai solo calcio ma è parte della narrazione di un’identità, la parte spesso più istintiva, immediata, irrazionale. Ma cedere alla semplificazione dei sentimenti, salutare uno scudetto come il segno tangibile di un nuovo Risorgimento, una retrocessione come una condanna all’agonia, una faticosa militanza in serie C come uno schiaffo alla storia, una umiliazione insopportabile per la dignità di un popolo o di una città vuol dire specchiarsi in una narrazione macchiettistica, vuol dire, per certi versi, rifugiarsi nel più comodo degli alibi: trionfo o disfatta, bianco o nero, tutto o niente.
E’ la dicotomia insita nel linguaggio calcistico che induce a diluire la complessità nella semplificazione, che fa dell’effimero la sostanza, che assolutizza la realtà. Un linguaggio che favorisce l’autoassoluzione collettiva, che predilige i punti esclamativi ma non contempla dubbi e quesiti.
La Napoli tricolore è la Napoli che conosciamo da molti anni. E’ Napoli. Con la sua storia millenaria, la sua bellezza magmatica e decadente, i suoi colori e con tutti i suoi problemi, che restano lì, irrisolti. Una capitale che per un verso accoglie milioni di turisti e per altro perde ogni anno migliaia di residenti, una città meravigliosa, un laboratorio di cultura senza pari in Europa, una città mondo che mastica tutto ciò che accoglie e lo fa suo, una metropoli unica, una città che tuttavia continua stabilmente a navigare nelle ultimissime posizioni di tutte le classifiche sulla qualità della vita, poco più sotto di Sannio e Irpinia, che continua a registrare tassi di disoccupazione tra i più alti d’Europa, che continua ad essere prigioniera di patologie sociali antiche.
Allo stesso modo, la straordinaria cavalcata del Benevento resterà nella storia sportiva e calcistica di questo Paese, ma non ci pare di poter dire che in questo periodo di tempo il prodotto interno lordo del Sannio, a partire dal capoluogo, sia sensibilmente cresciuto, così come non ci pare che la disoccupazione sia diminuita, che un argine allo spopolamento sia stato posto, che la marginalità dei territori sia stata superata.
Analogamente, la storia ci racconta che proprio nel decennio della serie A, negli anni ruggenti del post terremoto, quando Avellino sembrava il centro del mondo, venivano poste le condizioni per il disastro dei decenni a seguire, il disastro figlio di una bolla, di un modello di sviluppo insostenibile che ha lungamente mortificato le naturali vocazioni del territorio, che ha drogato l’economia e deformato la struttura sociale, un modello costruito sul meccanismo clientelare e funzionale più a rafforzare il sistema di potere imperante che a determinare concrete prospettiva di crescita sociale ed economica per le comunità.
La verità è che siamo portati a ricercare nella vicenda calcistica la risposta a tutti i quesiti a cui non riusciamo a rispondere. La verità è che sui marciapiedi, nei bar e nelle piazze il calcio si traduce nella misura di tutto, perché restituisce un sentimento a cui nessuno può sfuggire, perché garantisce risposte rassicuranti, tanto nel momento della gioia quanto in quello della delusione.
E’ drammatico, però, che questa retorica dell’assoluzione permei il discorso pubblico, detti l’agenda dell’informazione locale e orienti analisi, è drammatico che la vicenda calcistica sia in qualche modo diventata, dalle nostre parti, vicenda politica nel senso più ampio del termine. Questo accade proprio perché il calcio rappresenta, soprattutto in contesti marginali come i nostri, uno strumento di potere, una leva per mobilitare consenso, uno strumento formidabile a servizio della politica e funzionale alla stessa, una potentissima arma di distrazione di massa.
‘O pallone, però, è n’ata cosa.