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“Storia di un’ordinaria Valle Caudina”, il viaggio raccontato da un pendolare

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“Sono le 18 di un fresco pomeriggio di Marzo. La primavera è alle porte, si sente, si percepisce. La pioggia e i colori grigi di qualche giorno fa sono stati sostituiti da un sole bello. Radioso. Che ti ha dovuto far vestire a cipolla sì, ma bello”. Inizia così il racconto di un viaggio da Napoli a Benevento con i treni della “Valle Caudina”. A scrivere è Danilo Forgione, un pendolare sannita, che ha voluto condividere la sua storia su Ntr24.

“Napoli era in forma smagliante e non faceva paura. Ma ogni cosa bella è destinata a finire. Dovevo tornare a casa. A Benevento. Entro in stazione. Il binario del treno era il 4°. Son praticamente dovuto uscire e rientrare dalla stazione perché il tratto che porta ai binari dal 2 al 4 nella stazione di Napoli era chiuso. “Lavori di manutenzione straordinaria”, recitava il cartello. “Che diavolo mettono a posto se poi è sempre tutto uguale?”, esclamava un ragazzo di fianco a me.

Il sole ormai era calato, per fare spazio all’imbrunire. La fortuna aiuta gli audaci, ed io speravo con tutto il cuore di terminare quella giornata in maniera positiva. Mi sbagliavo. Giro l’angolo e lo vedo lì. Immobile. Con quei fari che hanno l’aspetto di due occhi che sembrano quasi dire “vi prego, uccidetemi”. Era il treno Napoli – Cancello – Benevento. Chiamato anche “valle caudina”. Soprannominato dai pendolari più satirici “valle della morte”. Il treno non era “quello nuovo”. No.

Fiancate piene di scritte di writers che dal 1970 fino ad oggi hanno riempito e ricoperto la carrozzeria. Vetri appannati, non dall’umidità ma da una polvere talmente diventata parte integrante del finestrino che oramai non è più removibile. Ruggine e puzza di acciaio marcio.

Le porte erano spalancate. Neanche un controllore davanti. Alla mercé di tutti gli avventori che osino entrarvici. Salgo su. Sulla destra una pozza di acqua di cui non m’interrogo più della provenienza. Apro le porte per entrare nella carrozza. Pesantissime. Le guarnizioni ormai andate. La prima prova per capire se sei degno oppure no di entrare lì.

Con un po’ di forza riesco ad aprirle. La cosa è resa più difficile perché lo faccio col mignolo. Non volevo sporcarmi l’intera mano, ma solo un dito. Quello più piccolo. Le porte si aprono, ci riesco a passare per un soffio prima che esse si richiudano con me ancora in mezzo. Il vagone è quasi vuoto. Incontro un’amica. Aveva gli occhi di chi ne ha passate tante, il sorriso di chi le ha superate tutte. La saluto e mi congedo con un “buona fortuna”. Mi risponde “siamo nelle mani di Dio”. Cerco un posto la cui poltroncina non abbia macchie o tagli. Difficile.

Ne scelgo una che aveva solo l’impressione di non poter più reggere il peso di una persona. Erano ormai le 18.20. C’erano vari ragazzi neri, studenti o lavoratori stremati da quello che una grande città come Napoli gli aveva preso. Tra la puzza di polvere e un’aria che mi aveva unto già la faccia sento un fischio da lontano e il viaggio ha inizio.

Il treno comincia a muoversi. I pendolari lo sanno. Il treno “verde” va perché deve andare. Non ce la fa più a sostenere un viaggio. Si dice che ai giovani macchinisti dei Frecciarossa è chiesto loro di riuscire ad affrontare un viaggio de la “Valle Caudina” fino a destinazione. Se riescono nell’impresa vengo assunti a tempo indeterminato.

Appena il vagone si muove senti le marcie “entrare” una ad una: prima, seconda, terza, quarta, quinta. Lanciano il treno. Raggiunge gli 80-100 km/h e poi lo spengono. Lasciandolo correre per inerzia. Un po’ come quando con il motorino volevi risparmiare la benzina e sulle discese lo spegnevi. Qui però non è una questione di benzina, ma di motore. Potrebbe rompersi da un momento all’altro. Fondersi. Esplodere. Ad ogni “jamm ja” del macchinista il treno fa 100 metri.

Se ti sporgi dal finestrino vedi sfrecciare davanti a te i comuni di Acerra e Cancello. Pensi che questa volta riuscirai ad arrivare a casa in orario accettabile. Ma c’è sempre uno scambio in agguato. Ed allora sei fermo lì, alla stazione di Santa Maria a Vico almeno per 30 minuti.

Senti il treno accendersi. Speri di ripartire. Ma poi si spegne. E la gente bestemmia. Ti lamenti. Dai sfogo alle repressione. Sono sempre gli stessi discorsi che camminano da carrozza in carrozza. Da almeno 30 anni. Dopo varie ripartenze e fermate un operario della “metrocampania nord-est” attraversa le varie carrozze urlando “si scende a San Martinooo”. Gente non abituata, ignara di tutto si guarda disorientata: “Cosa significa tutto questo?”.

E tu, ormai veterano, lo guardi come un padre che insegna al figlio le verità della vita. Lo fissi negli occhi dall’alto verso il basso ed esclami con voce tremolante, stanca, ma forgiata dagli innumerevole scambi delle 8 del mattino alla stazione di Sant’Agata dei Goti: “c’è il pullman sostitutivo”.

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