CULTURA
De Filippo: una modalità per passare da un ruolo subalterno a quello di protagonista
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Nel corso dell’incontro “Tra eroine ed antieroine, immagini e ruoli di genere nel Risorgimento”, promosso, presso l’Auditorium “Gianni Vergineo” del Museo del Sannio nell’ambito delle celebrazioni dei 150 anni della Provincia di Benevento, dalla Società Italiana delle Storiche ( di cui si parla a parte) è stato presentato il volume scritto da Clotilde De Filippo, storica presso la Biblioteca Universitaria di Bologna, dal titolo: “La guerra delle sannite. Il brigantaggio femminile nella provincia di Benevento dopo l’Unità d’Italia – 1860/1880” (Edizioni Edimedia).
Il saggio nasce da una ricerca svolta presso l’Archivio di Stato di Benevento relativamente al fenomeno storico conosciuto come brigantaggio meridionale postunitario, ovvero la guerra che si scatenò all’indomani dell’unificazione dell’Italia tra l’esercito e gli apparati istituzionali del nuovo stato italiano e un numero sorprendentemente grande di irriducibili bande di briganti. La base delle bande brigantesche fu nei boschi sulle montagne dell’Appennino meridionale, tra le quali si dislocavano gli isolati comuni del Mezzogiorno. Ma per quanto costituite e comandate da uomini ostinati, abituati agli stenti e alla fatica, tali bande non avrebbero resistito a lungo contro un esercito regolare, disciplinato e meglio equipaggiato, se, ha ricordato la De Filippo, non avessero potuto contare su centinaia di manutengoli pronti a fornire tutto ciò di cui avevano bisogno — viveri, vestiti, armi, ricovero — e che difficilmente avrebbero potuto procurarsi senza aiuto, con le forze dell’ordine a dar loro incessantemente la caccia.
Un primo dato significativo che emerge dall’analisi dei documenti, ha detto l’autrice del libro, è che una parte cospicua di manutengoli era costituita da donne, energiche e caparbie contadine che spesso si rivelarono più utili degli uomini, in quanto l’appartenenza al “gentil sesso” le rendeva meno sospette agli occhi di soldati e autorità. Inoltre, molte di queste contadine decisero, per diverse ragioni, di unirsi alle bande come vere e proprie brigantesse, mostrando di possedere capacità guerriere del tutto simili a quelle degli uomini. Il brigantaggio, ha spiegato la De Filippo, offrì loro la possibilità di riscrivere la propria vita, passando da una situazione di passività e subalternità, cui erano condannate dall’appartenenza agli strati più umili della popolazione e soprattutto al sesso femminile, ad una situazione di attivismo e protagonismo in quanto vere e proprie guerriere. In maggioranza contadine ignoranti, impararono a cavalcare, sparare, combattere, indossarono abiti maschili ed esercitarono, in qualche caso, il comando sugli uomini, dimostrando che, all’occorrenza, potevano sviluppare in breve tempo potenzialità nascoste e mettere in campo una serie di qualità e attribuzioni solitamente considerate appannaggio degli uomini. Figura esemplare, a tale proposito, secondo la De Filippo, è quella della brigantessa Filomena Pennacchio, una delle più famose in assoluto. Poco dopo il suo “arruolamento” nella banda di Giuseppe Schiavone, la Pennacchio divenne un’intrepida combattente: armata e vestita da uomo, non si sottrasse agli scontri a fuoco con soldati e forze dell’ordine, macchiandosi anche di omicidio.
Sconfitto il brigantaggio, tuttavia, ha aggiunto la De Filippo, l’immagine inquietante di brigantesse feroci fu progressivamente riassorbita in quella tranquillizzante di vittime di guerra, indotte dalla brutalità dei briganti a compiere azioni violente, contrarie alla natura femminile. In effetti, una volta terminata la loro “avventura”, per evitare le pene più severe, furono le stesse brigantesse a rientrare in questo stereotipo sostenendo davanti ai giudici di essere state rapite e costrette con la forza ad unirsi alle bande. I magistrati, d’altro canto, accolsero la tesi senza riserve dal momento che contribuiva a cancellare una realtà scomoda, quella di contadine guerriere, armate e dotate di potere.