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ECONOMIA

III Festival diocesano del Lavoro: resistere e rimanere per ripensare i luoghi del vivere e del lavorare

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Oltre 200 sono stati gli studenti dell’IIS A. M. De’ Liguori di Sant’Agata de’ Goti e dell’Istituto “Luigi Sodo” – Liceo classico e Liceo scientifico Osa di Cerreto Sannita presenti alla terza edizione del Festival diocesano del Lavoro, svoltasi proprio a Sant’Agata de’ Goti presso i locali dell’IIS De Liguori e quest’anno dedicata, in particolare ,al tema delle aree interne.

Una tematica non affrontata tanto snocciolando numeri (cioè volti e storie di persone), che purtroppo si conoscono, ma studiata dal punto di vista del necessario ripensare i luoghi del vivere e del lavorare. Ad aprire le danze delle riflessioni sul futuro delle aree interne italiane, in questa iniziativa pensata ed organizzata da Progetto Policoro (Caritas diocesana-Pastorale Sociale e del Lavoro-Pastorale Giovanile), Scuola diocesana d’Impegno Socio-Politico e Movimento Lavoratori di Azione Cattolica, ci ha pensato il direttore della Scuola diocesana d’Impegno Socio-Politico don Matteo Prodi, che ha coordinato i lavori della tavola rotonda mattutina, prima riepilogando le motivazioni che hanno portato alla nascita del Festival e poi ripercorrendo qualche tappa del percorso “Giovani & Lavoro”, nato nel 2019. Dopo i saluti del dirigente scolastico del De’ Liguori Maria Rosaria Icolaro, del vicesindaco di Sant’Agata de’ Goti Giovannina Piccoli, è intervenuto il vescovo diocesano mons. Giuseppe Mazzafaro, il quale ci ha tenuto a sottolineare che il futuro è dei giovani solo quel futuro inizia dal presente e dall’impegno che ci si mette per cambiare questo mondo. “Il forte desiderio che ho nel cuore è che chi va via dal nostro territorio, lo faccia per scelta e non per costrizione o per necessità. Laddove quello spostarsi in un altro luogo viene fatto per necessità, è un intero territorio che sta perdendo, non solo perché quel territorio sta perdendo vita e talenti di quella persona che si trasferisce, ma la cosa definisce il fallimento di un modello (politico, economico, sociale, ecc.). Che, a quel punto, forse, tanto modello non era”.


Nella plenaria mattutina di “Re Start”, due relatrici d’eccezione, come annunciato: Giuliana Martirani di Pax Christi e già docente dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, nonché presidente del Movimento Internazionale della Riconciliazione (MIR), e Nadia Matarazzo, geografa e docente dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. Quest’ultima ha proposto uno studio approfondito sul ripensare concretamente ai luoghi del vivere e del lavorare, partendo dal dibattito degli ultimi 10 anni (incentrato, prima, su come organizzare un processo di ripopolamento con la SNAI, e, da qualche mese a questa parte, sul concetto di un accompagnamento in un percorso di spopolamento irreversibile evidenziato purtroppo dal PSNAI).

“E’ l’abitare l’unica condizione imprescindibile per riportare il lavoro nelle aree interne e nei piccoli paesi, perché attraverso il lavoro si esprimono le vocazioni territoriali, non solo quelle personali. Come? Prima di tutto attraverso l’acquisizione di competenze, e quelle si possono avviare solo a partire dalla presenza in quel territorio di una scuola. Acquisendo delle competenze, sempre più mirate, a seconda delle peculiarità e bellezze di quel dato territorio, ci si potrà accorgere meglio che, per esempio, il discorso sul turismo non incrementa nessun potenziale di benessere sociale ed economico nelle aree interne, salvo per alcune fattispecie eccezionali esistenti. Se prendiamo i dati degli ultimi 10 anni, non c’è nessun indicatore evidente, dal punto di vista scientifico, che attesti che il turismo nelle aree interne ha portato sviluppo. Inoltre – ci tiene ad evidenziare la Matarazzo – dovremmo concentrarci sul fatto che lo spopolamento non è (solo) l’abbandono delle aree interne, ma la fine dell’abitare le aree interne. Lo spopolamento non è la causa della crisi, ma è l’effetto di una cultura che ci ha e ci sta torturando: quella che devi essere vincente, che devi essere il migliore, quella che devi avere sempre successo nella vita, quella che la tua carriera professionale la puoi costruire soltanto nei grandi agglomerati urbani. La crisi dei nostri territori non va misurata dal punto di vista demografico, ma culturale perché la crisi che stiamo vivendo è culturale. La radice del problema è la nostra cultura economica, che ha orientato per decenni le scelte di vita di tante generazioni. L’urgenza è di carattere culturale”.

LA POLPA E L’OSSO
La prof.ssa Martirani è voluta partire da un passaggio della Matarazzo per costruire il suo preziosissimo intervento, e in particolare dalla metafora dell’osso e della polpa di una ciliegia. “Laddove, di una ciliegia, viene mangiata la polpa, rimane poi solo il nocciolo, che sputiamo, invece di piantare. L’osso non va gettato nel cestino, ma va seminato affinchè poi possa crescere e svilupparsi. L’analogia è proprio questa. L’osso è il mezzo per la rigenerazione di una ripartenza. Gli ossi che vogliamo buttare, oggi, sono i migranti, i poveri, il Meridione d’Italia”. Concetto che sarà ripetuto anche nel pomeriggio, nell’introduzione ai laboratori, dal segretario diocesano del Movimento Lavoratori di Azione Cattolica, Giovanni Pio Marenna: “Quella di accompagnare le aree interne “in un percorso di spopolamento irreversibile e di cronicizzato declino e invecchiamento” (affermazione presente nel nuovo PSNAI) è un’idea malsana e molto nociva. Un’idea che fa parte di quella che papa Francesco definiva la cultura dello scarto. Dove chi fa più fatica, deve essere lasciato solo; dove chi resta indietro, deve essere isolato e abbandonato. Noi non ci vogliamo rassegnare a questa narrazione di disuguaglianza sociale e culturale. E poiché la responsabilità non è soltanto di una, al momento, inadeguata strategia politica a medio e lungo termine, ma di tutti noi che abbiamo deciso di rimanere nel nostro territorio, vivendoci, lavorandoci, investendoci cuore, tempo, denaro, vita perché innamorati e appassionati per questo nostro Sannio beneventano, ritenevamo, come organizzatori, fosse giusto contaminarci delle tante buone prassi imprenditoriali presenti sul nostro territorio”. Per questo motivo, infatti, i lavori nei workshop del pomeriggio sono stati coordinati dai protagonisti diretti di alcuni buoni modelli imprenditoriali e progettuali. Proprio perché, presentando delle azioni positive e valide, con le quali sono stati raggiunti sogni e centrati obiettivi, possa venir fuori quella speranza concreta dalla quale potrebbero nascerne altre di idee progettuali efficaci. E ce ne sono tantissime. Va dato merito, spazio e riflettori a chi ha deciso di resistere e rimanere nel proprio territorio.

Per questo III Festival diocesano del Lavoro sono stati scelti come “testimonial” di resistenza e rimanenza, presentando le proprie realtà ai partecipanti ai workshop: il Progetto Policoro, la progettualità di iCare del MILA-Museo Itinerante dei Luoghi Alfonsiani, il servizio di food delivery Samneat, le Cantine Mustilli, la web agency Tublat e il think tank di studenti e professionisti Give Back. Mentre un altro imprenditore, Antonio Posillico, titolare di “Maglificio Aurora” di Durazzano, che ha subito lanciato una proposta di collaborazione con l’IIS A. M. De’ Liguori, ha raccontato la propria esperienza di imprenditore sannita, ponendo l’accento sul fatto che è possibile creare possibilità nel Sannio. Questo perché è proprio nelle aree interne che si possono collaudare forme innovative di abitare, educare, prendersi cura. “Cosa ci potrà essere di buono – si chiedeva provocatoriamente la prof.ssa Martirani – in quest’area interna della Campania? Un nuovo modello sociale di sviluppo, fortemente fondato sulle relazioni, sulla fraternità, sull’umanità. Se non conosciamo noi stessi e il nostro territorio, non possiamo essere liberi; se non siamo liberi, non possiamo liberamente riconoscere e sviluppare i nostri talenti”.

La speranza non è credere in maniera passiva e inoperosa che andrà tutto bene, ma è agire perché è giusto farlo e perché, le cose che non vanno, possono essere cambiate solo se si agisce e ci si mette la faccia in prima persona e in prima linea. “E’ assolutamente necessario – ha tratto le sue conclusioni don Matteo Prodi – guardare a disegni più grandi dei nostri, tirando giù le stelle del cielo e diventando abitanti di questa terra”. D’altra parte c’è bisogno dell’importanza dell’azione e dell’impegno, nel qui e ora. Essere abitanti di questa terra significa essere consapevoli della realtà in cui si vive e che si sta vivendo, accettandone le sfide e i problemi, e agendo concretamente per provare a migliorarla.

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