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Don Terenzio Pastore, il missionario sannita che fa fiorire i deserti e porta l’acqua ai poveri della Terra

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Ci sono vite che si raccontano da sole, perché parlano attraverso i gesti, prima ancora che con le parole. Una di queste è quella di don Terenzio Pastore, missionario beneventano della Congregazione del Preziosissimo Sangue di Cristo, fondata da San Gaspare del Bufalo, che da quasi trent’anni cammina tra le ferite più profonde del mondo. Le sue orme si sono posate là dove l’umanità sembra dimenticata: in Africa, in India, in Perù, nei deserti della solitudine e dell’ingiustizia. E in quei luoghi, don Terenzio non ha semplicemente portato conforto. Ha portato acqua, vita. Dignità.

È nato così il progetto “Acqua nel deserto”, una risposta concreta alla sete vera di un villaggio tanzaniano che, nel silenzio della sua povertà, ha gridato nel cuore del missionario. “Quella notte – racconta don Terenzio – ho pregato e pianto. Ma il Signore mi stava consegnando una storia da raccontare e un impegno da abbracciare”. Da allora, undici pozzi d’acqua sono stati realizzati in Tanzania, uno in Guinea, e proprio pochi giorni fa è partito il finanziamento per un altro pozzo in Kenya. Non solo scavi nella terra, ma scavi nell’indifferenza, nei deserti interiori dell’Occidente distratto.

La sua voce, dolce ma decisa, porta in sé il peso e la luce di quasi trenta anni di missione. Non c’è retorica nei suoi racconti, solo la forza disarmante della verità vissuta. Nei suoi occhi si legge l’Africa, ma anche l’India, dove ha toccato con mano lo scandalo degli slums di Mumbai, e il Perù, terra di contrasti feroci tra ricchezza e miseria. E c’è un dettaglio che racchiude tutto il senso del suo cammino: uno dei pozzi scavati in Tanzania oggi disseta profughi fuggiti dal genocidio in Rwanda. “Non c’è messaggio più bello – dice – di poveri che aiutano altri poveri”.

Don Terenzio oggi opera nel Sud Italia, tra Bari e altre realtà che si nutrono del suo racconto e della sua passione. Incontra scuole, giovani, adulti. Semina coscienze. “I più piccoli – confessa – sono quelli che mi sorprendono di più. Due scuole hanno finanziato un pozzo interamente, e poi si sono incontrate online con i loro coetanei africani che ora bevono da quell’acqua: è stato un momento di gioia che nessuno dimenticherà”.

Nel cortile di una scuola o nel silenzio di un villaggio africano, la sua missione è la stessa: annunciare con i fatti che ogni vita ha valore. Anche attraverso un campo sportivo intitolato all’indimenticato Carmelo Imbriani, costruito in Tanzania con mille sacrifici, per dare ai giovani un luogo di sogni e di gioco, di crescita e di speranza.

E se chiedi a don Terenzio che cosa sia cambiato in lui dopo tutto questo tempo, la risposta è semplice e potente: “Un bagaglio di vita che ventotto anni fa non avevo”. Dentro quel bagaglio ci sono occhi, mani, volti, e quella “rivoluzione della tenerezza” di cui parlava Papa Francesco, che tanto ha ispirato il suo stile missionario.

Ai giovani lascia un messaggio che è più di una frase: è una chiamata alla responsabilità, alla bellezza della vita. “Voi non siete il futuro, siete il presente”, dice spesso. “Mordete la vita”, ripete, parafrasando don Tonino Bello, perché fare il bene non è un’opzione: è un’urgenza. E mentre lo ascolti, capisci che non c’è bisogno di grandi poteri per cambiare il mondo. Basta qualcuno che creda, davvero, che ogni goccia conti. Che ogni deserto può fiorire.


Don Terenzio, quasi trent’anni di missione. Cos’è cambiato in lei in tutto questo tempo?

Sicuramente il passare del tempo umano e quindi una maturità che si acquisisce con gli anni. Ma anche le esperienze vissute: attraverso il lavoro con la Congregazione dei Missionari del Preziosissimo Sangue di Cristo, ho avuto modo in Italia e all’estero di toccare con mano diverse realtà sia dal punto di vista umano che ecclesiale. Insomma, mi porto dietro un bagaglio di vita che 28 anni fa non avevo, ovviamente.

Ci parli del progetto “Acqua nel deserto”, che lei sostiene anche attraverso i suoi libri….
‘Acqua nel deserto’ è un progetto nato grazie proprio alle esperienze che ho vissuto in un villaggio africano senza acqua e senza energia elettrica. Era il mio primo viaggio in Tanzania post covid e, dopo aver terminato i sopralluoghi nel nostro ospedale intitolato a San Gaspare, a Itigi, nell’entroterra, ci è stata proposta questa uscita ‘fuori porta’ al deserto del sale. Toccare con mano la situazione di quel villaggio, senza alcun tipo di servizio, è stato un colpo allo stomaco: trascorsi una notte tra lacrime e preghiere, pensando alle difficoltà di quella gente. Da lì, però, è nato tutto: ho pensato che il Signore mi stesse consegnando un progetto e una storia bella che ho voluto inserire come ultimo capitolo del mio secondo libro ‘Deserti da far fiorire’. Il risultato? A distanza di tre anni sono stati realizzati undici pozzi d’acqua – del valore di circa 15mila euro ciascuno – in Tanzania, uno in Guinea e proprio qualche giorno fa abbiamo inviato il denaro utile per costruirne un altro in Kenya, dove abbiamo aiutato una coppia di medici che si è trasferita con le proprie figlie e lo ha fatto come scelta di vita.

 Oggi lei è un missionario di base al Sud: dopo anni in Sicilia, operi a Bari. Il progetto ‘Acqua nel deserto’ vive grazie anche ai suoi incontri di sensibilizzazione con adulti e giovani.
Il progetto raccontato nell’ultimo libro affronta argomenti importantissimi contenuti nell’Agenda 2030, che definisce 17 obiettivi di sviluppo sostenibile da raggiungere entro il 2030 per affrontare sfide globali come la povertà, la fame, il cambiamento climatico e le disuguaglianze. In questi anni ho parlato in tante scuole: in particolar modo i più piccoli, sensibilissimi al tema acqua e uso responsabile, sono quelli che vengono maggiormente coinvolti da dirigenti e insegnanti. Tante iniziative di carità sono venute proprio dagli istituti: pensi che la somma per la realizzazione di un pozzo – inaugurato lo scorso anno – è stata completamente coperta da due scuole guidate dallo stesso dirigente scolastico: l’I.C. ‘Cencelli’ di Sabaudia e l’I.C. ‘Elsa Morante’ di Roma, che hanno donato l’acqua a 300 loro coetanei della “St. Francis Xavier School” di Itigi. A marzo scorso siamo anche riusciti a metterli in collegamento via web ed è stato bellissimo vedere la gioia condivisa di chi ha ricevuto e di chi ha donato.

Ci racconta un aneddoto che le è rimasto nel cuore, durante uno dei suoi viaggi?
L’Africa e l’acqua mi hanno segnato tanto. Tra le varie esperienze vissute c’è sicuramente la realtà dell’India: per esempio a Mumbai, città da 20 milioni di abitanti e con il reddito pro capite più alto, ci sono almeno 11 milioni di persone che vivono in condizioni di estrema povertà all’interno degli slums. Vedere che questo contrasto tra ricchezza e povertà – che dipende tanto da motivi religiosi quanto culturali – rimanga tale, mi ha lasciato un dolore. Dall’altra parte penso al lavoro svolto da Madre Teresa, che è riuscita ad abbattere questa barriera con l’esempio concreto. Stesso discorso in Perù dove ai quartieri ricchissimi si contrappongono favelas dove si vive in condizioni molto precarie. In entrambi i posti lavorano i nostri missionari che si occupano dell’educazione e dell’istruzione dei più giovani, ma realizzano anche tante attività per gli anziani dei villaggi. Mi permetta anche di aggiungere una cosa.

Prego.
Uno dei pozzi realizzati in Tanzania ha permesso di portare l’acqua in un luogo al confine con il Rwanda. Oggi quel villaggio ospita tanti profughi fuggiti dal genocidio e dalla guerra. Non c’è messaggio più bello di poveri che aiutano altri poveri.  

Spesso si punta il dito su una Chiesa che ostenta ricchezze…
Le strutture che ha la Chiesa dovrebbero essere funzionali alla sua missione, quindi anche avere delle proprietà o degli introiti è per poter sostenere nel tempo le missioni. Se c’è un uso che va oltre, che non è di questo tipo, perché è di arricchimento, bhè questa è la povertà di chi ce l’ha a disposizione e non l’utilizza. Però, dall’altra parte, posso anche dire che ci sono tante opere che la Chiesa compie in silenzio, che magari non sono così evidenti ma sono lievito anche per la società. Penso in particolare all’impegno sociale che non si concretizza solamente in situazioni difficili o a volte estreme, come quelle raccontate, ma anche in un tessuto urbano, dove si va a sopperire alle mancanze dello Stato.


Tornando all’Africa, grazie al suo impegno in prima persona è nato anche un complesso sportivo in Tanzania, intitolato a Carmelo Imbriani. Che esperienza è stata?
Quella del complesso sportivo intitolato a Carmelo è stata una delle esperienze realizzate per far crescere il contesto sociale di un territorio che nell’ospedale ha il volano del suo sviluppo da ben 36 anni. Quando i missionari sono arrivati a Itigi oltre 50 anni fa, c’era solo qualche capanna in un territorio semidesertico: pian piano, la goccia d’acqua di tanti ha permesso uno sviluppo dell’area e, in questo contesto, l’impianto sportivo è diventato una opportunità di incontro e di aggregazione, ma anche di svago, per bambini e giovani. Quando è arrivata questa richiesta da parte della produzione del cortometraggio ‘Volevo essere Imbriani’ e, dopo aver conosciuto la famiglia di Carmelo, abbiamo subito pensato: perché non impegnarci in questo progetto? Ci sembrava giusto veicolare un messaggio importante anche in Africa, tra tantissimi giovani, raccontando la vita sportiva ma soprattutto i valori di fairplay espressi dal capitano giallorosso. E’ anche vero, però, che noi missionari siamo rimasti soli, rispetto alle previsioni di aiuti possibili, ma lo abbiamo portato a termine lo stesso. Qualcuno di importante avrebbe potuto donare, ma a noi non è arrivato nulla…nonostante la notorietà di Carmelo.

A proposito di colori giallorossi: come ha vissuto questo campionato tribolato della Strega?
Abbiamo un contesto in cui non mancano esperienza e mezzi economici. Mi pare che in questi anni il cammino sia stato tribolato a causa di tante vicende extrasportive che hanno coinvolto anche tesserati del Benevento e che hanno gettato un po’ di ombre su come mai abbiamo fatto l’ascensore, soprattutto per quanto concerne la retrocessione in C. Secondo me abbiamo nel presidente una risorsa importante a disposizione, considerando anche che piazze storiche non si sono iscritte al prossimo campionato. Gli errori possono esserci, sia sul piano gestionale sia in termini di acquisti, ma non mettiamo in discussione l’impegno di Vigorito: è un impegno che dura da vent’anni e che ha portato a risultati mai raggiunti nella nostra città. Al di là del risultato sportivo, quello che fa male è assistere a contrasti e polemiche: pensiamo a ritrovare l’unità, si vince e si perde tutti insieme.

Che impressioni ha della sua città oggi, ogni volta che torna?
Abbiamo un patrimonio storico, artistico e naturalistico, ed inserisco anche l’ambito religioso con la vicinanza a Pietrelcina, che dovrebbe essere valorizzato ed evidenziato maggiormente. Da lì si può partire per lo sviluppo del nostro Sannio. Qualche segnale importante lo sto vedendo attraverso la gastronomia. Resta il problema dello spopolamento: molti giovani sono costretti ad andarsene per mancanza di opportunità, a causa anche di corruzione e logiche clientelari che ostacolano la crescita del territorio.

Tornando alla Chiesa: che eredità ha lasciato papa Francesco, a proposito degli ultimi che lei conosce bene?
E cosa ne pensa di Papa Leone XIV?
Da
gli ultimi mesi con la malattia e la morte di Papa Francesco e poi adesso con Papa Leone si parla tanto dell’operato di uno o dell’altro, di divisioni, strategie diverse, uno voleva una cosa, uno un’altra. Penso invece che Papa Francesco abbia dato tutto la sua vita cercando di evidenziare la necessità di guardare a chi è maggiormente nel bisogno, intendendolo come povertà materiale ma anche spirituale, e alla volontà anche di una vicinanza che attraverso quello che lui definiva la ‘rivoluzione della tenerezza’ portava a non escludere nessuna persona al di là della sua fede, della sua cultura, del suo percorso umano e farsi vicino a tutti. Nonostante di Papa Leone si cerchino di vedere azioni di rottura con il precedente Pontificato, a me sembra che i messaggi lanciati e ripetuti più volte siano invece indirizzati alla pace e all’unità nella Chiesa (e non mi pare che Papa Francesco non abbia cercato di operare in tal senso!). Poi, che su certe situazioni specifiche ci possano essere orientamenti differenti, è anche insito nel cammino della Chiesa. Al di là di tutto mi ha colpito il fatto che un nome outsider come Robert Francis Prevost è stato eletto in pochi giorni a testimonianza che ci sono state unità d’intenti e grande convergenza.

Un’ultima domanda. Se potesse dire una sola cosa ai giovani, cosa direbbe?
Proprio ieri ho letto una frase di Santa Caterina della Siena che, in maniera molto diretta, recita: ‘L’ora di fare il bene è subito’. Se dovessi lasciare un messaggio ai giovani è proprio in linea con questo, aggiungendo una frase di Don Torino Bello: ‘Mordete la vita’. Ai giovani dico di accogliere la vita come un dono prezioso, dedicarsi a fare quel bene che è alla nostra portata perché alla fine questo permette non soltanto una crescita umana ma anche una crescita della società. A scuola più volte ripeto ai più piccoli: ‘Voi non siete il futuro del nostro Paese, ma siete il presente’, perché già con quello che oggi sono in grado di conoscere e di accogliere con le varie iniziative sono capaci di crescere, di maturare, di orientare le proprie scelte. Le faccio un esempio: ad una scuola che ha collaborato al progetto ‘Acqua nel deserto’ è stata affidata una fontana nella villa della loro cittadina, come a dire: ‘Sei pure tu responsabile che questo rubinetto sia chiuso quando non serve, che l’aiuola rimanga pulita, che ti prendi cura di questo spazio comune’. A Messina ho vissuto in prima persona la nascita dell’associazione ‘Addiopizzo’, collaborando spesso anche con Libera: lì c’erano e ci sono ancora oggi tanti giovani che si impegnano ad essere cittadini responsabili, che combattono la corruzione, le mafie, le logiche malavitose o di interesse personale. Un luogo con così tanti giovani profuma di democrazia e di bellezza. Questo significa ‘mordere la vita’. 

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