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ECONOMIA

Brancaccio da Marx alla città delle Streghe: “Mi sento un figlio di questa terra. Futuro? Sannio deve aprirsi al Mondo”

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Lo scorso febbraio il suo appello per la Pace in Ucraina – sottoscritto da numerosi esponenti della comunità accademica internazionale – veniva pubblicato sul Financial Times prima e su Le Monde poi. E perché meravigliarsi? A 52 anni Emiliano Brancaccio è “una vera e propria autorità mondiale di economia politica“. Definizione non nostra, ma di Aniello Cimitile. D’altronde è proprio da Benevento che la voce eretica di Brancaccio si alza fino a dibattere con quelle – per citarne alcuni – di Vernon Smith, premio Nobel nel 2002 oppure Olivier Blanchard, da anni riferimento del Fondo Monetario Internazionale.

Nell’agone dove si scontra il gotha del pensiero economico lui si presenta con le proprie idee marxiste e la casacca dell’Università degli Studi del Sannio. E guai a temere gli possa andare stretta. Tutt’altro. E quando spiega il perché ti sembra di ascoltare una vecchia intervista di Jurgen Klopp: “Le squadre più ricche non le voglio allenare, le voglio sfidare“. Purché ovviamente una tale ambizione sia condivisa dalla sua squadra. Che poi con il tecnico tedesco Brancaccio condivide anche la capacità di eccellere nella delicata arte della comunicazione. Ma un allenatore parla di calcio, pane per tutti. L’economista di numeri, di strutture, di bisogni. Per arrivare a certi livelli, però, serve sempre la spinta della passione.

La sua per l’economia politica e per Marx da dove nasce?
Vengo da una famiglia ricca di contraddizioni socioculturali: nobili decaduti e proletari in cerca di riscatto, cattolici e atei, liberali e comunisti. In casa c’erano pochi soldi ma molta dialettica, e molti libri. Ne ricordo uno, in particolare: con Marx in copertina, nella consueta posa iconografica. Da bambino mi pareva di scorgere in quello sguardo buffo, fintamente solenne, la tipica malizia del reietto che la sapeva lunga. A diciotto anni mi venne la curiosità di verificare. Mi iscrissi all’università con il desiderio di capire Marx, ma ben presto mi resi conto che non veniva quasi più insegnato. Mi ostinai allora a studiarlo tra un esame e l’altro, nel tempo libero. E’ stata dura, ma è stata anche la decisione più fruttuosa della mia carriera: ho potuto sviluppare un approccio scientifico originale rispetto alle analisi più convenzionali della maggior parte dei colleghi accademici. E oggi che il Marx scienziato è tornato in auge, mi trovo un po’ in vantaggio rispetto agli altri”.


“Un eretico pericoloso perché convincente”: così l’ha definita Americo Mancini – caporedattore del GR di Radio 1 RAI – nella prefazione del suo libro ‘Democrazia sotto assedio’.  Possiamo dire che si è scelto uno strano posto per raccontare la sua “eresia”: Benevento è stata enclave pontificia e solitamente viene considerata terra restia ai cambiamenti e alle novità.
“Vero. Ma è stata anche terra di “streghe”: donne ai margini della società eppur dotate di notevoli conoscenze pratiche in chimica, medicina e altri campi. Una minaccia per il potere costituito, che non a caso le perseguitava. La mia esperienza è che tracce di quella remota istanza sovversiva si trovano ancora oggi, tra le pieghe della società sannita. Tra i più giovani e non solo”. 


Napoletano, studente alla Federico II, poi giovane ricercatore a Torino e a Londra, infine professore all’Università degli Studi del Sannio. Lei lavora a Benevento ormai da vent’anni, un periodo molto lungo: immaginava di restare qui per così tanto tempo? Che rapporto ha creato con la Città?
“A Londra ricevetti proposte importanti, ma avevo una figlia piccola e decisi di rientrare in patria per starle accanto. A Benevento trovai un contesto adatto per sviluppare le mie ricerche eterodosse. Una città minuta, longobarda nella sua capacità di coltivare la discrezione e il silenzio, e quindi adatta al pensiero alto e complesso. Ho imparato ad amarla e oso considerarmi un suo figlio adottivo. Ma soprattutto, questa è una terra ricca di studenti brillanti. I più tenaci, che si sono formati con me, oggi sono ricercatori strutturati presso università e istituzioni, tra cui il ministero dell’Economia e la Bce. Beneventani che hanno dimostrato di farsi valere, a livello nazionale e internazionale. Un orgoglio”.


In questi anni ci ha colpito il suo sforzo per dimostrare che anche la piccola provincia italiana può avere voce in capitolo sui grandi dibattiti della politica e dell’economia. Abbiamo ritrovato il nome dell’Università degli Studi del Sannio sul Financial Times e su Le Monde, per intenderci, e l’abbiamo vista “conversare” da professore dell’ateneo beneventano con l’ex capo FMI Olivier Blanchard, il premio Nobel Vernon Smith ed esponenti di vertice delle istituzioni come Romano Prodi e Mario Monti. E’ un’altra sua eresia o una battaglia che può essere vinta?
Sono onorato di aver contribuito a portare Benevento e l’Università del Sannio su ribalte alle quali solitamente accedono solo le grandi istituzioni. Il fatto di essere riusciti in imprese così ambiziose supporta una tesi che sostengo da tempo: la provincia non deve per forza esser “provinciale”, non deve necessariamente accontentarsi di coltivare il proprio piccolo orto. A date condizioni, una realtà come la nostra potrebbe addirittura diventare un punto di riferimento stabile per lo sviluppo della ricerca e del dibattito ai massimi livelli internazionali, persino in un campo difficilissimo, elitario e ostile agli outsiders, come la politica economica. A tal fine, però, ci vorrebbe una chiara volontà locale di sostenere con entusiasmo sforzi così imponenti”.


Nel gennaio 2022, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico, raccontava della legittima ambizione di una piccola università come la nostra a competere con i grandi colossi dell’accademia mondiale. Parole che suonarono come una sfida: a Benevento applaudirono, ma altrove?
“In effetti può darsi che a qualcuno, a Roma, siano fischiate le orecchie. Il punto è che le piccole università del Sud conseguono tuttora risultati importanti in tanti settori, ma in un contesto istituzionale ormai palesemente ostile. Da anni la politica universitaria punta esplicitamente a ridurre la quota di risorse degli atenei più piccoli, specialmente se situati nelle aree interne del meridione. Nonostante i proclami, persino il famigerato PNRR non ha affatto invertito la tendenza. Questa linea viene giustificata in base a presunti criteri “meritocratici” che in realtà, a un esame accurato, risultano in larga misura arbitrari. Anziché accodarsi alla falsa retorica del “merito”, allora, le università del Sud dovrebbero apertamente contestare questa politica discriminatoria, che in fin dei conti non è altro che l’ennesima propaggine del più retrivo “leghismo”. 


Per ben due volte il suo nome ha alimentato il retroscena della politica cittadina. Sia Fausto Pepe che Clemente Mastella – gli ultimi due sindaci di Benevento – volevano lei alla guida dell’assessorato alle Finanze di palazzo Mosti. Perché non ha accettato?
“All’epoca ringraziai Pepe e poi Mastella per avermi proposto l’incarico. Ma in entrambi i casi rifiutai, come del resto ho rifiutato vari altri ruoli e candidature, in Italia e in Europa. Il motivo è semplice. Io non sono interessato alla “caccia alle poltrone”. Piuttosto, mi interrogo sul significato politico delle mie azioni. Questa è un’epoca in cui le amministrazioni del Sud sono quasi sempre costrette, loro malgrado, ad attuare rigide politiche di austerity. Il responsabile del bilancio diventa allora una sorta di “Mister Tagli”, spesso anche in settori vitali per la popolazione, come i servizi e il welfare. In questo scenario, il “no” agli incarichi diventa per me l’unico atto coerente. Ecco perché, fino ad oggi, ho ritenuto più giusto restare un libero docente, e da questa posizione contribuire a diffondere spirito critico nel dibattito scientifico e politico. Quanto al futuro, se monterà un’onda di cambiamento generale, vedremo”.


Un consiglio, però, può sempre darlo: su cosa dovrebbe investire una città come Benevento?
“Stiamo vivendo una fase di grande concentrazione del potere economico, in poche mani e in poche aree. Le zone che restano fuori da questa centripeta giostra di ricchezza rischiano di spopolarsi senza rimedio. Accade in tutto il Sud Italia, inclusa Napoli, con un calo di popolazione in vent’anni del tre percento. E soprattutto accade a Benevento, con un crollo che sfiora il dieci percento. La tendenza è così potente che la tipica strategia “provinciale”, di chiudersi a riccio nel localismo e sperare che la tempesta passi, è una velleità destinata a fallire. La provincia, al contrario, oggi deve aprirsi per fare “catch-up”, per agganciarsi alle grandi traiettorie dello sviluppo, e per farlo ha un bisogno vitale di “infrastrutture di connessione” con il mondo esterno. Dove per infrastrutture di connessione intendo sia quelle materiali, come la logistica e i trasporti, sia quelle immateriali, come la formazione dei giovani, che per misurarsi con i tumulti del mondo moderno devono esser dotati di conoscenza alta e non bassa, dinamica e non statica, critica e non subalterna, internazionale e non localistica. Insomma, la vecchia politica meridionale puntava sulle prebende. Un nuovo meridionalismo illuminato dovrebbe partire, invece, dalla lotta per le “infrastrutture” necessarie per aprirsi al mondo”.

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