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CULTURA

L’Atto Unico di Fetto e della Solot, l’uomo nuovo della libertà: l’inedito di Fenoglio è Prima Nazionale a Benevento  

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“Nessuno poteva illudersi sull’esito della battaglia, ma si sperava, si sperava”. Così Beppe Fenoglio, in “Atto Unico”, composizione teatrale pubblicata postuma e ancora inedita.
La Prima nazionale è andata in scena l’8 settembre, a 80 anni dal proclama di armistizio di Badoglio e dall’inizio della Resistenza, anche grazie all’Anpi, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, con la sezione provinciale guidata da Amerigo Ciervo.
Il palcoscenico, quello del Mulino Pacifico, per la regia di Michelangelo Fetto, della Solot Compagnia Stabile di Benevento. La potente Assunta Maria Berruti e i debuttanti Giorgia Gomes e Angelo Valente del TeatroStudio, gli attori protagonisti. I bravi attori protagonisti. Congiunzione ideale con la famiglia Fenoglio, per l’autorizzazione alla sceneggiatura e alla messa in scena di Michelangelo Fetto, MariaLaura Simeone, insegnante, studiosa e scrittrice. Sue le parole d’introduzione, capaci di collocarci in un luogo e in un tempo fisico ma, al contempo, di ricongiungerci a un sentimento: quello della libertà conquistata col conflitto e dal conflitto.  
Consapevolezza dell’esito infausto della battaglia ma perseveranza nella speranza sono oggi monadi antinomiche per noi? Parrebbe di sì, a guardarsi attorno, per le débâcle politica, civica e sociale. Eppure, da quei due ragazzi sul palcoscenico, dal loro rossore, dall’eccessivo respiro loro, è parso di no. 
“Tirava un vento che strappava la ghiaia ghiacciata. Pareva un miracolo che il cielo non si crepasse” dice Bob, il ragazzo partigiano di Fenoglio in Atto Unico, che non è Johnny e non è Milton, ma loro epilogo. 
Cosa ha voluto riportare in voce e cassa armonica Fetto? Da cosa tentava di liberarsi Fenoglio con quella partitura teatrale in fieri, a tratti grezza?
Ci sono dei corpo a corpo, uno dentro l’altro. La guerra, il fascismo e la Resistenza. I partigiani e i soldati. La collina e la pianura. Lo sbandamnento e la guardia in divisa. Il freddo della notte e la carne bruciata dallo sparo. C’è l’anelito all’amore e l’orrore della realtà che nemmeno l’amore vince. C’è la disillusione per un sacrificio che pare inutile, che forse verrà meno scendendo dalla collina e nascondendosi al sicuro. O che cadrà in una fossa comune. C’è una cosa, tuttavia, che non ne vuol sapere di soccombere. Risorge prepotente nonostante la nausea. 
E’ la speranza, di Fenoglio, di Fetto, di Bob il partigiano Badogliano.
“La collina mi fa nausea, il cielo mi fa nausea, tutto mi fa nausea, le strade mi fanno nausea… C’è la nausea del cercar da dormire. Bussare alle porte, resistere all’ululato dei cani e del vento… aspettare che t’aprano. E poi t’aprono, finalmente, quando l’attesa ti ha fatto quasi arrivare al limite della pazzia, e chiedi da dormire. Senti che tutto il loro intimo, tutto il loro spirito urla no, e invece ti biascicano un sì. Hanno paura, e ti fanno pietà, ma una tale disperata pietà che quasi quasi useresti la pistola per toglierteli dinnanzi a farti quella pietà. E dormire in quelle stalle! Non hanno più bestie, quasi non hanno più paglia. Il freddo e il duro sono tali che non riesci a prender sonno, così ti distilli goccia a goccia la tortura. E il peggio è che senti le donne piangere, per la paura di avere sotto il tetto uno che ti può costare il tetto e forse anche la pelle del marito… Nell’ultima casa in cui sono stato, la donna ha pianto tutta la notte, piano e liscia, come una bambina. Io vegliai per tutto il tempo, lei pianse per tutto il tempo, l’uomo un po’ dormiva, un po’ vegliava, un po’ bestemmiava contro tutti e tutto, un po’ strapazzava la moglie per quel piangere. Ti svegliano sempre alle tre. Alle tre! Senti venire l’uomo. Lui pensa che tu sia addormentato e per svegliarti ti mette le mani addosso, nel buio. E quella mano addosso ti farebbe urlare! Ti dice che son solo le tre, che è maledettamente presto, ma che è bene per tutti che tu decampi. C’è chi te lo dice con una bruschezza affettuosa, da padre di famiglia ruvido ma buono, ma è un tono artificiale. C’è invece chi non fa teatro, te lo dice a mani giunte, supplichevoli. E così tu te ne esci alle tre, nel cuore della notte, nel pieno del freddo, nel caos del mondo. E se tu sapessi, Lalla, che fatica, che fatica d’Ercole far passare il tempo dalle tre al levar del sole. Arrivi a desiderare con tutta l’anima di vedere un barlume di luce, non più d’un barlume, di vedere del fumo uscire da un comignolo, di sentire una voce, una voce qualsiasi. Ma come tarda a venire, tutto questo. Poi, finalmente, quando tu sei così stremato come se fosse già passato il più lungo giorno del mondo, albeggia. Tu non hai idea di quanto duri la lotta fra il buio e la luce, nel cuore dell’inverno. E che cosa sia! Un groviglio di enormi serpenti mi pare, gli uni chiari e gli altri neri. Una cosa da dar raccapriccio e … nausea!”.
Dalla nausea, che pare senza uscita, all’uscita di scena, a risalire la china della collina, dai compagni. A vincere o a morire. Senza un amore suo ma con tutto l’amore per una collettività che ancora non c’è: l’uomo nuovo della libertà. 
Dopo gli applausi hanno preso la parola Fetto e Ciervo. Resistenza ha detto il primo, calando gli occhi, come il partigiano Bob nel chiedere ospitalità per la lunga notte. “E’ il momento di essere vicini all’Anpi, ha ricordato Ciervo, a noi “sbandati”.

di Tiziana Nardone

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