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Si vis pacem, para bellum

Spinti dall’ossessione della semplificazione, dall’urgenza di restituire una lettura immediata, i più individuano nel commissariamento del Pd campano da parte di Elly Schlein un atto di guerra nei confronti del governatore De Luca, e nel percorso congressuale che s’annuncia la resa dei conti sul terzo mandato. Ci permettiamo di dissentire muovendo da un ammonimento tanto caro a Ciriaco De Mita

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Il grande Ciriaco De Mita amava ripetere che quando ad un problema complesso si pretende di dare una risposta semplice, immediata, vuol dire che non si è compreso il problema. Una verità che trova fulgida conferma in gran parte delle analisi che in questi giorni abbiamo avuto modo di leggere, o di ascoltare, in merito al commissariamento del Partito democratico della Campania. Spinti dall’ossessione della semplificazione, dall’urgenza di restituire una lettura immediata, i più individuano nel commissariamento un atto di guerra nei confronti del governatore De Luca e nel percorso congressuale che s’annuncia la resa dei conti sul terzo mandato.

Ci permettiamo di dissentire, perché crediamo nella forza dei processi, che trova genesi nel contesto, nella logica dei fatti, e sovrasta ogni resistenza. Un po’ come il vento, che non si ferma con le mani. L’onorevole Antonio Misiani da Bergamo non è stato mandato in Campania nelle vesti di commissario regionale del Pd per un capriccio ma in ragione delle gravissime e diffuse irregolarità che hanno segnato la prima fase del congresso nazionale in diverse aree della regione, a partire, evidentemente, dalla provincia di Caserta. Irregolarità che hanno restituito la plastica rappresentazione di un partito arenato nella palude del potere e della gestione, prigioniero, in larghe parti della regione, di equilibri artificiosi, figli di una militanza posticcia e militarizzata. Un partito incontendibile, ma soprattutto chiuso.

Certo, qualora Bonaccini avesse vinto le primarie probabilmente non avrebbe mosso un dito, avrebbe chiuso gli occhi dinanzi a quelle evidenze, ma il punto è che le cose sono andate diversamente. Ha vinto Elly Schlein e ha vinto scommettendo sulla partecipazione, sull’ambizione di costruire un Pd nuovo, capace di restituire rappresentanza a milioni di cittadini che in questi anni di “governismo” si sono rifugiati in altre opzioni e nell’astensione, ovvero a quei milioni di giovani che magari a votare non ci sono mai andati, giovani lavoratrici e giovani lavoratori imprigionati nella precarietà, portatori di istanze che sino ad oggi non hanno trovato asilo nel discorso politico.

Mentre Bonaccini si proponeva come il segretario del partito degli amministratori e dei territori, dei sindaci e dei governatori, Elly Schlein rinnegava totalmente questa visione, assumendo che il governare non può essere una linea politica, né a Roma né sui territori, e che l’alternativa a questa destra va costruita fuori dai Palazzi, anche a dispetto delle spinte conservative degli apparati.

Quando la segretaria nazionale del Pd afferma, come ha fatto proprio in relazione al commissariamento del Pd campano, che pur di liberare il partito dai cacicchi e dai signori delle tessere è pronta a perdere anche quote di consenso, dice, dunque, una cosa persino ovvia. Non solo perché nella sua prospettiva è prioritario scommettere sul voto di opinione, su di un consenso libero e diffuso, ma perché il prossimo anno il calendario prevede le elezioni europee, passaggio politico per eccellenza che non contempla alleanze e non coinvolge gli apparati, mentre le elezioni regionali in Campania si terranno, con ogni probabilità, fra tre anni. A giungo 2026, secondo gli ultimi piani del governo.

Ed eccoci al primo punto della questione. Teorizzare che il congresso regionale del Pd campano possa o debba risolversi in una contesa sul terzo mandato di De Luca, in uno scontro cieco tra quanti pretendono sin d’ora di blindare la ricandidatura del governatore e quanti, invece, vorrebbero chiudere ogni spazio a questa ipotesi è semplicemente lunare.

In primo luogo perché un congresso giocato sul futuro del governatore restituirebbe solo macerie, a prescindere dall’esito. In seconda battuta perché, evidentemente, l’ipotesi di un terzo mandato per De Luca potrà essere valutata solo quando il secondo sarà avviato a conclusione, sulla base di un giudizio approfondito e fondato del percorso compiuto, degli obiettivi raggiunti, ed in funzione di un contesto politico che oggi non possiamo nemmeno provare ad immaginare.

Se il Pd dovesse ritrovarsi fra qualche mese su di una linea costruita sul presupposto che De Luca non potrà essere ricandidato, a rigor di logica De Luca dovrebbe essere sfiduciato. Altra materia è ragionare sulle ipotetiche determinazioni che il Nazareno potrebbe assumere, di qui ad un paio d’anni, rispetto alla possibilità che possa essere concessa o meno ad un Presidente di Regione, di qualsiasi Regione, la possibilità di concorrere per il terzo mandato.

Se, viceversa, il prossimo segretario regionale del Pd venisse eletto con il mandato di blindare la candidatura di De Luca nel 2026, ogni ipotesi di rigenerazione e di apertura del Pd nella prima regione del Mezzogiorno verrebbe meno e si aprirebbe un conflitto senza via d’uscita che finirebbe, comunque, con il logorare lo stesso De Luca, posta la capacità di persuasione che il Nazareno potrebbe esercitare su riferimenti istituzionali depositari di un consenso che prescinde dal destino di De Luca, in un contesto segnato dalla crescita del Pd sul piano nazionale.

In tale quadro emergono due verità sostanziali che sono ben chiare tanto a De Luca quanto a Elly Schlein e al commissario Misiani.
La prima. E’ ragionevole ritenere che le prossime regionali si consumeranno in un contesto del tutto diverso dalle ultime. Anche in Campania ci sarà un centrodestra forte ed agguerrito pronto a lanciare l’assalto a Palazzo Santa Lucia, tanto più in considerazione del fatto che si andrà a votare nello stesso giorno per il governo di molte ed importantissime regioni. Questo vuol dire che con ogni probabilità si comprimerà di molto lo spazio per il civismo e, contestualmente, non ci saranno grandi margini per terze vie, ovvero per sfuggire alla logica bipolare. Molto difficilmente, dunque, De Luca potrà vincere facendo a meno del Pd. Tutt’al più potrebbe decidere di consegnare la Campania alla destra, ma questa è un’altra storia.

La seconda. De Luca non può essere confuso con il deluchismo. Le patologie di cui è affetto il Pd campano hanno radici molto profonde e non c’è dubbio che il governatore le abbia alimentate, facendo del Pd un partito a sua immagine e somiglianza, completamente subalterno a Palazzo Santa Lucia, ovvero ai consiglieri regionali e ai relativi apparati. Quelle patologie vanno necessariamente aggredite ed il partito va bonificato. Dopo di che, De Luca è innanzitutto un grande leader, senza dubbio il più autorevole riferimento del Partito democratico e del centrosinistra nel Mezzogiorno d’Italia, un politico di grande spessore ed un amministratore di straordinarie capacità. Ed è, soprattutto, uno dei pochissimi riferimenti di cui il Pd dispone, sul piano nazionale, capaci di dettare l’agenda, di incrociare il consenso di ampie fette di elettorato, un tribuno dall’eloquio sublime in grado di infuocare platee e studi televisivi. Uno dei pochi leader democratici, paradossalmente, in grado di incrociare un diffuso consenso nel Paese.

Tornando all’ammonimento di Ciriaco De Mita, dunque, la complessità del contesto è tale da non concedere spazio a letture dicotomiche, funzionali a confezionare verità comode, facili ma posticce e fuorvianti. Impone, piuttosto, di andare oltre il senso apparente delle parole pronunziate in questa fase, dei retroscena che delineano scenari apocalittici, dei toni belligeranti con cui, dall’una e dall’altra parte, si annunciano sanguinose rese dei conti. Si vis pacem, para bellum.

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