POLITICA
La crisi afghana, l’illusione dell’esportazione della democrazia e i riflessi sui nostri territori

Ascolta la lettura dell'articolo
C’è una distanza di circa seimila chilometri in linea d’aria tra Kabul e Benevento, ma non bastano a rendere lontani gli effetti e i riflessi di quanto sta avvenendo in questi giorni nel martoriato Afghanistan, vittima allo stesso della mancata riuscita del progetto di democratizzazione e del tentativo in atto di subordinazione al potere talebano del popolo afghano.
Questo, però, si è tradotto anche in un conflitto meramente locale tra i talebani e le falangi locali dell’Isis per la conquista della supremazia in quella fascia di mondo, con inevitabili riflessi e reazioni da parte della comunità internazionale.
Senza entrare nei particolari di quanto sta avvenendo – non potremmo, essendo come tanti semplici e inermi spettatori a distanza – non possiamo, però, esimerci dal ricordare a noi stessi prima di tutto le conseguenze di carattere sociale e politico che anche sul nostro territorio, lontanissimo dallo scacchiere bellico afghano, stanno cominciando a prodursi.
Effetti della globalizzazione stessa che ci tiene ancorati agli scenari internazionali sotto le diverse dimensioni in cui essa si declina e ci proietta costantemente in una complessiva percezione di precarietà individuale e collettiva.
Sono tanti i comuni sanniti in questi giorni – ma chiaramente non solo del Sannio – a mobilitarsi per l’accoglienza e l’assistenza di chi riesce a scappare, a fare appelli per la raccolta dei beni essenziali alla sopravvivenza, soprattutto materiale, del popolo afgano.
E’ allo stesso tempo, questo mobilitarsi, un dovere etico e morale nei confronti di chi vive una sofferenza, dettato dai nostri principi democratici di salvaguardia dei diritti umani contemplati nella nostra carta costituzionale e nei ratificati documenti della Comunità internazionale. Ma è anche la manifestazione concreta della illusorietà del progetto di democratizzazione o di “esportazione della democrazia” in contesti diversi da quello che viene definito Occidente.
Sembra, allo stesso tempo – come è capitato da decenni in occasioni di crisi internazionali che hanno come epicentro paesi gravitanti nell’orbita degli interessi geopolitici ed economici transnazionali – una forma di sublimazione e di compensazione del fallimento progettuale, che si tramuta in interventi umanitari o nel processo di accoglienza.