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Il racconto di un medico sannita al Nord: ‘Il virus, la paura e un mestiere che è missione di vita’

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Volevamo condividere con voi webspettatori la testimonianza anonima di un medico sannita, impegnata in prima linea sul fronte Covid-19: una riflessione che ci ricorda quanto questa professione sia, essenzialmente, una missione di vita.

Turni massacranti, apparecchiature che non si conoscono, operatori formati in poche ore e carenza dei dispositivi di protezione base come tute, mascherine e guanti: questo lo scenario entro cui si muove, ogni giorno, il “sacrificio” di migliaia di medici e operatori sanitari, costretti a combattere una guerra silente contro un nemico invisibile, eppure agguerritissimo, il Covid-19.

Raggiunta telefonicamente dalla redazione di Ntr24, la “Dottoressa M” (la chiameremo così per rispettare la sua volontà di anonimato) ci ha raccontato cosa avviene davvero nei reparti di un ospedale del capoluogo lombardo e come è cambiata la sua vita dall’inizio dell’emergenza ad oggi.

“La prima considerazione che mi viene da fare è che tutti noi medici dell’ospedale, senza distinzione di specializzazione e “gradi”, per evitare il collasso della struttura e per aiutare il più possibile pazienti e familiari, ci siamo uniti facendo “squadra”: abbiamo, cioè, abbracciato con passione la nostra ricollocazione nei reparti di medicina interna, malattie infettive, pneumologia e medicina d’urgenza.

Abbiamo indossato mascherina e guanti senza neanche sapere esattamente come farlo e, con il nostro consueto camice ospedaliero (le tute idrorepellenti non erano sufficienti per tutti), abbiamo varcato le porte di un mondo che, fino a quel momento, potrebbe essere solo lo scenario di un libro o un film distopico. Sin da subito la situazione ci è apparsa drammatica: era la fine di febbraio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità non aveva ancora dichiarato il coronavirus pandemia, tra di noi si parlava poco (un po’ perché tutto sembrava surreale, un po’ perché le mascherine ci obbligavano a limitare la comunicazione verbale) eppure, negli occhi dei colleghi incrociati nei corridoi, c’erano tutto il tormento e il patema d’animo di chi sa che si trova davanti ad un nemico nuovo, tanto forte quanto spietato.

Ho imparato molto in questi primi 30 giorni di “trincea” (scherziamo così, nei momenti di pausa tra colleghi): ho imparato, ad esempio, che si può sorridere con gli occhi ai familiari che sono fuori, al di là dei vetri, che ci chiedono spiegazioni, che avrebbero bisogno di un abbraccio o di essere presi per mano. Sì, si può sorridere con gli occhi e si deve farlo, perché la nostra è anche una “missione” umana, oltre che scientifica.

Non posso nascondere – continua il medico – la mia rabbia nel constatare quanti continuassero, nonostante i continui avvisi a “stare a casa”, la loro vita “normale”, andassero finanche a correre, a divertirsi, in palestra. Noi, in ospedale, in quel momento, già intuivamo la drammaticità della situazione, già eravamo in evidente affanno con i posti in terapia intensiva e con il numero di medici necessari e, vedere tanti sminuire la cosa, considerare una terribile crisi respiratoria al pari di un’influenza e lagnarsi di un aperitivo mancato, ci ha fatto male.

Come fa male, ogni volta – e qui mi riferisco anche direttamente ai tanti amici compaesani sanniti- leggere di ripetute lamentele alla richiesta di non uscire. Non serve che sia io a dirlo, amici, ma sappiate che in questo momento chi ha la possibilità di starsene a casa, lontano da un contesto angosciante e rischioso quale quello ospedaliero, deve ritenersi, comunque, fortunato.

La nostra vita, da un mese a questa parte, consiste nello svegliarsi di primo mattina, indossare la mascherina e cercare di dare il miglior contributo possibile in ospedale, di tornare a casa, di sera e, rigorosamente da soli, andare a dormire per ricaricare le pile per l’indomani. Anche chi ha famiglia, vive praticamente senza contatti: chi può ha preso un hotel, un b&b, oppure dorme nel proprio studio, per non mettere a rischio la vita di nessuno dei propri cari.

Noi invece ci ammaliamo, e anche velocemente: molti colleghi sono risultati positivi e sono in quarantena, qualcuno non ce l’ha fatta, qualcun altro non ce la farà. Lo sappiamo. E’ il rischio di un mestiere, drammatico e meraviglioso insieme, che è quello del medico, e se c’è un merito che questo dannato virus ha, è proprio quello di averci fatto riscoprire la meraviglia di un lavoro che è innanzitutto una missione, quella di salvare la vita degli altri. A prescindere da tutto.

Voi, amici sanniti, aiutateci stando a casa e siate orgogliosi di un sindaco che si prende cura di ognuno di voi con delle misure che oggi vi sembrano privazioni, ma che un domani capirete essere un dono. Insieme ce la faremo e, quando la tempesta sarà passata ci riabbracceremo tutti”.

(Nella foto il disegno fatto alla dottoressa da un’amica)

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