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CULTURA

Quelle ipocrisie vincenti, recensione a ‘Le bugie hanno le gambe lunghe’ di Luca De Filippo

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Più che una commedia sulla menzogna, a dispetto del titolo “Le bugie hanno le gambe lunghe”, la versione proposta da Luca De Filippo (ieri e oggi in scena al Massimo di Benevento per la rassegna "Palcoscenico 2000) è la celebrazione della recita sociale. Della simulazione, in nome della salvaguardia di apparenze e convenienze. In questo, la bugia in realtà copre il meccanismo, che appartiene più alla psicologia che al raggiro, della rimozione. Ed è quindi solo un espediente per mantenere l’impalcatura di una società guasta, quasi un mezzo di salvezza a scopo di pacificazione. Società in cui il protagonista Libero, interpretato egregiamente dal figlio del grande drammaturgo partenopeo, è l’unico a preservare dignità e verità. Libero di nome e di fatto, è peraltro l’unica vittima del marchingegno di finzione.

La trama è nota, ed è tra le più minimaliste di Eduardo: in un palazzo delle piccola borghesia napoletana del dopoguerra, alcune coppie si trovano ad aggiustarsi le esistenze, misere per indigenza e per decoro umano. Povere materialmente come quella della sorella di Libero, costretta a sposare l’avaro e benestante vicino di casa, e povere di cuore come la coppia formata dall’arrogante Benedetto e consorte, dedita a reciproci tradimenti e conciliazioni interessate, sotto l’abile regia della madre di lei, incarnata dalla bravissima Anna Fiorelli. Il finale vedrà una adesione di maniera di Libero al sistema di ipocrisie, tanto esplicita (sposerà la prostituta del palazzo) da mostrarsi in realtà accusatoria.

La commedia, che fa parte de “La cantata dei giorni dispari”, fu scritta nel 1946 ma rappresentata solo un anno dopo per far spazio all’incredibile successo di “Filomena Marturano”; è già vicina alle tematiche che Eduardo sviscererà negli anni ’50, di critica morale all’Italietta del boom. Luca, con una regia compatta e attenta al dettaglio, sul copione originale agisce di cesello, “scolpendo” l’azione per arrivare al nucleo essenziale, persino nella scenografia. Come, del resto, un po’ in tutte le cover dei testi paterni che da qualche anno porta in tournèe. Per fare questo si serve di un espediente semplice ed efficacissimo: lascia ai comprimari, tra cui segnaliamo Nicola Di Pinto (il guardaspalle di Cutolo ne “Il camorrista” di Tornatore), una recitazione urlata e topica, da caratteri, piuttosto ripetuta. Mentre nella versione eduardiana anche i non protagonisti hanno personalità ricche, e dense di particolari, qui agiscono come unica voce, quasi un coro, o meglio un gregge. Mentre Luca conserva per sé la parte variabile, confidenziale, ricamando toni e riflessioni. In modo da restituire, narrativamente e tecnicamente, l’idea di un candido vittima del circuito di maschere grottesche. E vincenti.

Giovanni Chianelli

Foto | Lia Pasqualino

 

 

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