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CULTURA

L’umile e il sublime: la cartapesta di Perino e Vele

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(di Marco Napolitano) I risvolti che l’arte della scultura ha conosciuto nel corso del Novecento hanno risentito dell’inevitabile paragone con la “sorella” più prestigiosa, la pittura. D’altronde, almeno per quanto concerne il secolo scorso, è indubbio il percorso maggiormente tormentato e faticoso della prima rispetto alle felici soluzioni e avventure della seconda.

E proprio di fronte ad un tale scenario, la reazione dell’esercizio plastico, precedentemente rallentato nelle sue fughe dai propri mezzi espressivi, più rigidi e vincolanti per sua stessa natura, ha rappresentato il motivo trainante di un vertiginoso viaggio votato alle sperimentazioni più ardite, tali da forzare il concetto stesso della ricerca plastica tradizionalmente intesa e capaci di polverizzare il fardello della retorica idea ottocentesca della scultura come statua o monumento. Il dibattito rinnovato intorno al problema ha spinto artisti d’ogni estrazione culturale a misurarsi con espedienti disparati, investendo soprattutto nella scelta dei materiali più diversificati e lontani da quelli nobili della tradizione (il marmo, il bronzo), leitmotiv delle ricerche scultoree dalla metà del secolo scorso in poi.

Perino & Vele, escono da questo solco tracciato dalle novità proposte attraverso decenni di innovazioni, sia per quanto riguarda i contenuti che per la scelta ponderata della veste materica a cui affidarne la trasmissione. La ricerca di Emiliano Perino (New York, 1973) e Luca Vele (Rotondi, 1975) si orienta sin dall’alba del fortunato sodalizio, consacrato nell’arte e nell’amicizia tra i banchi del Liceo Artistico di Benevento, verso l’utilizzo dei comuni fogli di giornale, che diventano la materia portante dei propri lavori; la cartapesta è materiale umile e prestigioso insieme, “povero” ma versatile, capace di veicolare molteplici significati. Fattore non meno decisivo che ha orientato la scelta artistica del duo campano è la lunga tradizione popolare in cui la cartapesta è profondamente radicata, dove è resa come lo strumento più popolare della duttile creatività artigianale.

Un’altra componente giustifica le geniali creazioni in cartapesta: la sottile dimensione ludica che si accompagna all’irriverente ironia cui le creazioni si prestano. Le stranianti costruzioni “giocano” con l’osservatore, non più passivo voyeur ma attore decisamente impegnato sulla scena dell’arte, dove è chiamato ad interagire con quelle opere, da guardare ma soprattutto da attraversare, addirittura da toccare, come elementi consueti della vita d’ogni giorno, giocose presenze appartenenti alla scena quotidiana ma investite dalla trasformazione eccentrica in cui la carta dei quotidiani è indiscussa protagonista.

I due artisti lavorano il materiale con perizia artigianale: pile di giornali, rigorosamente catalogate per colore, carte umili e consunte dall’uso, sono accuratamente stipate nello studio di Rotondi, il piccolo centro al confine tra le province di Benevento e Avellino, dove subiscono il processo di trasformazione in una tenera poltiglia, cui si conferisce nuova forma attraverso formelle metalliche, così da creare moduli da assemblare e comporre nella rielaborazione di oggetti di dominio comune: divani, tende canadesi, vasche da bagno, storiche Fiat 500 (ce ne sono quattro rivestite di un manto soffice di cartapesta, nell’installazione A subway è chiù sicura, nella stazione metropolitana Salvator Rosa di Napoli).

La vena ironica, il sicuro lavoro sui codici della tradizione della scultura, memore di suggestioni diverse, dal gigantismo di un campione della Pop come Oldenburg alla teatralità dell’arte povera, suggeriscono un carattere ibrido del proprio operare, ma intimamente connesso alle contraddizioni e alle incertezze del presente, nella convinzione che “la creatività è ludica, ma non solo. Il nostro lavoro apparentemente sembra solo giocoso ma rivela anche tematiche sociali dal carattere tragico”. La scultura di Perino & Vele è anche scultura di storia, capace di spingere la reazione del fruitore oltre il puro divertimento visivo e anzi forzando l’apparente contraddizione tra l’irriverenza e il denso contenuto concettuale, addentrato nei temi più brucianti della tragica attualità.

È il caso di Kubark, mostra che dà forma all’orrore del nostro tempo, le torture del carcere iracheno di Abu Ghraib, al centro di uno scandalo nel 2004 balzato alle cronache per le sevizie cui erano sottoposti i detenuti. E Porton Down, dal famigerato centro di ricerche britannico dove vennero utilizzati animali per testare armi chimiche, che riflette drammaticamente sulle crudeli sperimentazioni a scopo militare cui, da sempre, vengono sottoposti gli animali.

 

 

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