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CULTURA

“Come parlano i beneventani”

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Esce in questi giorni, nelle edicole e nelle librerie, la ristampa del libro “Come parlano i beneventani” (La filosofia di un popolo e il suo dialetto), edito da Aesse Stampa Benevento.
La prima edizione fu presentata nel corso della vivace rassegna “Nonsolostampa” del 2010, curata dal giornalista Billy Nuzzolillo. Ora è disponile la seconda (“rivista e aggiornata”, fanno sapere dalla casa editrice), che conserva, naturalmente, la fortunata doppia copertina, con le foto di Gigi La Monaca e Cosimo Colavolpe, e si arricchisce delle recensioni di Carlo Panella (il Quaderno) e Tullia Bartolini (Messaggio d’Oggi) e di un’incursione dell’attore sannita Dodo Gagliarde sul groviglio (molto sannita) tra testa, capo, bacio e vaso.

«Il libro – si legge in una nota – approfondisce il rapporto tra la “parlata” e la filosofia di vita dei beneventani. E’, in sostanza, una ricerca sul linguaggio di casa nostra, al fine di valorizzarlo per quello che è: espressione di un territorio, delle persone che lo popolano, della loro storia e del loro modo di intendere la quotidianità e i rapporti con gli altri. Si propone, quindi, di difendere l’osmosi “dialetto – territorio” e l’equazione “parlata” uguale “filosofia di vita”».
Tre i capitoli che delineano il percorso del libro, dopo la prefazione di Maria Ricca e l’introduzione di Bruno Menna: “Quello che diciamo e perché lo diciamo”, “Categorie” e “Minime massime”. Riproposto, infine, l’Abbecedario beneventano, un interminabile elenco di espressioni, locuzioni, frasi fatte e termini, che richiamano l’identitario e, a volte, geniale, lessico del capoluogo sannita. Un lessico forse in disuso ma presente nella mente e nel ricordo dei beneventani, visti i tanti “suggerimenti” giunti all’indirizzo di posta elettronica appositamente istituito: dialettoefilosofia@gmail.com.
«E’ una parlata, quella beneventana, fatalista, al bivio tra la rassegnazione e la furbizia, caratterizzata, spesso, da un pudico misticismo, intrisa – aggiungono i curatori della pubblicazione – di religiosità spicciola (Signore, mai peggio; chi ce criato non è puveriell’; Gesù Crist vede e pruvved’; ca bona ‘e Dio) e da un continuo ricorso al rincorrersi ciclico della sorte e della malasorte (stort’ va, diritt’ vene; tutt’ s’acconcia; cume vene cia pigliamm’), ma densa anche di intuizioni di grande pragmatismo (attacca u ciuccio a dovò u padrone; chi mi battezz m’è cumpar; chi tene mala capa, edde tene buon’ per’; è mort a criatura, non simmo chiù cumpar), quello che ti consente di sopravvivere in una realtà che, per il prevalere di indolenza e rassegnazione, spesso non offre pari opportunità».
Nel libro – e questo va sottolineato – ci sono pochissimi, rari riferimenti a sfere e gusti sessuali e non perché nell’uso dialettale manchino. Scarna anche la presenza di espressioni scurrili. Si tratta di una scelta ponderata nella speranza che “Come parlano i beneventani” possa continuare a essere giocoso strumento di conoscenza tra i più piccoli, ai quali è affidata la “salvezza” del linguaggio dei padri e dei nonni, che è il nostro elemento distintivo rispetto ad altre realtà territoriali, «la lingua materna – scrive Salvatore Niffoi, celebrato autore sardo – che dà l’imprinting al nostro parlare. Non quella nazionale ma quelle che si chiamano parlate locali o, in maniera offensiva, dialetti. Sono la linfa della democrazia linguistica. L’ultima frontiera di libertà. Anarchiche per natura. Parlate in famiglia, a scuola. Parlate, non imposte».

 

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