CULTURA
Pasolini, l’intellettuale di frontiera che continua a interrogarci
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«Per sottolineare l’attualità del pensiero di Pier Paolo Pasolini a cinquant’anni dalla sua morte non basterebbe un libro», afferma Luca Cavalli, presidente dell’associazione Le Orme. «È così complesso descrivere tutti i volti del poeta, dello scrittore, del regista, del romanziere e, più in generale, dell’intellettuale che, come pochi, è stato in grado di lasciare una traccia indelebile in anni difficili come quelli della metà del Novecento».
Pasolini, ricorda Cavalli, è stato un intellettuale di frontiera, capace di vivere e raccontare in prima persona il mondo degli ultimi e degli emarginati. «Non commemorava i poveri con il distacco dei salotti, né visitava le periferie con la curiosità del turista: le abitava, riducendo ogni distanza, scegliendo di vivere dentro le contraddizioni del tempo», spiega.
Figura complessa e spesso contraddittoria, Pasolini ha saputo mantenere una radicale indipendenza di pensiero. «È stato un uomo controcorrente, non sedeva alla corte di nessuno e, forse proprio per questo, è ancora così presente», sottolinea Cavalli. «Amò il comunismo ma non esitò a denunciarne le degenerazioni culturali. Espulso dal partito nel 1949, anche a causa della sua omosessualità, rifiutò di piegarsi a qualunque dogma».
Pasolini è stato un pensatore scomodo, capace di leggere la realtà oltre gli schieramenti. «Riuscì perfino a vedere l’altra faccia della medaglia negli scontri del Sessantotto, arrivando a dire di “simpatizzare con i poliziotti”, perché riconosceva in loro la sofferenza di uomini “figli dei poveri, separati, esclusi, umiliati dalla perdita di qualità di uomini per quella di poliziotti”».
Per Cavalli, Pasolini resta un intellettuale «lucidamente controcorrente», che seppe denunciare la fragilità di una generazione smarrita e l’oppressione esercitata da una società incapace di accogliere il dissenso: «Non vogliamo essere subito già così sicuri. Non vogliamo essere subito già così senza sogni», scriveva Pasolini, dando voce a un disagio ancora attuale.
Nel 1976, con le Lettere luterane e Il progresso come falso progresso, Pasolini lanciò un duro atto d’accusa contro la corruzione morale della politica e la nascente civiltà dei consumi, che definiva «il vero fascismo»: «Un potere che distrugge l’Italia – ammoniva – e che ha annullato la diversità e l’alterità».
«Rileggere oggi quelle parole – osserva Cavalli – significa confrontarsi con un pensiero che non ha perso nulla della sua forza. Parlano a un presente dominato dalla violenza, dall’intolleranza, dalla rincorsa al denaro, dall’uso strumentale del potere e dal perbenismo che anestetizza la coscienza civile».
A cinquant’anni dal ritrovamento del corpo martoriato di Pasolini all’Idroscalo di Ostia, Cavalli invita a una riflessione collettiva: «Dobbiamo chiederci quanto del suo amore per la verità, della sua lucidità, della sua rettitudine, guida ancora i nostri giorni. Quante volte rinunciamo a contrastare il pensiero dominante?».
E conclude con un monito: «L’eredità di Pasolini ci interroga sulla nostra parte di responsabilità in quella che, come scriveva Emil Cioran, appare oggi come la vacanza degli ideali. È forse da qui che bisogna ripartire».




