POLITICA
Un ricorso “politico” per una sentenza sacrosanta. Ma il regno di De Luca durerà ancora a lungo
Ecco perché la sentenza della Consulta che ha sbarrato la strada al terzo mandato dello sceriffo è inattaccabile, logica, e giusta. Ecco perché non ci vogliono poteri paranormali per prevedere le mosse di De Luca di qui alle prossime regionali. Sarà lui il vero architetto del campo progressista per la Campania, sulla base di condizioni che non ha esitato ad elencare nella sua ultima diretta
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Mercoledì scorso, lo sapete, la Corte Costituzionale ha accolto il ricorso del governo contro la legge elettorale della Campania, approvata lo scorso novembre, che avrebbe consentito a Vincenzo De Luca di correre per il terzo mandato. Una sentenza giusta e necessaria, che fa bene alla democrazia italiana, non solo alla Campania, perché riafferma un principio fondamentale, quello secondo cui la democrazia vive di alternanza, ragione per la quale il consenso popolare non investe, chi ne è beneficiario, di un potere assoluto al di là del tempo. La Corte non ha fatto altro che ribadire l’ovvio, ovvero che un limite al numero dei mandati per i Presidenti di Regione è necessario per evitare incrostazioni clientelari, per evitare una eccessiva concentrazione di potere nelle mani di un uomo solo al comando, per evitare che le regioni possano trasformarsi in repubbliche autonome, per favorire il ricambio delle leadership e delle classi dirigenti, per inibire la militarizzazione del consenso attraverso l’occupazione di ogni spazio di potere.
E quel che vale per i presidenti di Regione vale pure per i sindaci, per quelli dei comuni superiori a quindicimila abitanti, per i quali non è possibile andare oltre il doppio mandato, per quelli dei comuni tra cinque e quindicimila abitanti, per cui il limite è fissato a tre mandati. Sarebbe giusto anche per i comuni inferiori ai cinquemila abitanti ma è venuto meno perché la desertificazione demografica inibisce la rigenerazione della rappresentanza e, dunque, la rimozione di ogni vincolo si è resa necessaria per garantire la continuità istituzionale. Talvolta, seppur di rado, persino i principi fondamentali sanciti in Costituzione vanno sacrificati rispetto a dati di realtà che non lasciano alternative.
Vale la pena ribadire, anche in questa sede, che quando il governatore De Luca afferma, come ha fatto anche nella sua prima diretta dopo il verdetto della Consulta, che non si comprende per quale ragione il tetto al numero dei mandati vale per i presidenti di Regione e per i sindaci, ma non per sottosegretari, deputati e ministri, dice una assoluta bestialità. Perché i deputati e i senatori vengono eletti per legiferare, non per governare comunità o regioni, non per gestire enormi risorse, per gestire potere. I sottosegretari e i ministri, poi, vengono nominati dal Presidente della Repubblica su indicazione del Presidente del Consiglio e sono soggetti alla fiducia del Parlamento.
Allo stesso modo, il governatore dice una fesseria quando sottolinea che il Presidente della giunta regionale può sempre essere sfiduciato dal Consiglio. Vero, ma la maggioranza di un Presidente di Regione è costruita con il cemento della fedeltà, ogni consigliere regionale di maggioranza risponde al Presidente fintanto che il Presidente riconosce a quel consigliere i dovuti spazi di gestione, i dovuti finanziamenti. Ed in questo meccanismo, in questa reciprocità, si cela il pericolo che un Presidente si trasformi in un podestà, attraverso la militarizzazione del consenso sui territori. Un pericolo che solo il tetto al numero dei mandati può scongiurare.
De Luca dice invece una cosa vera quando sottolinea che Luca Zaia è ormai in procinto di concludere il suo terzo mandato alla guida del Veneto sulla base di una legge elettorale contro cui nessuno ha ritenuto di fare ricorso, quando elenca le diverse leggi elettorali, del tutto analoghe a quelle approvare a novembre dalla sua maggioranza, e rispetto alle quali nessuno ha ritenuto di proferire una parola. Verissimo, ma questo è un punto politico che non ha nulla a che fare con il merito del ricorso e della sentenza della Consulta. Le ragioni per le quali il governo ha deciso di ricorrere alla Consulta contro la legge campana sono persino banali. Giorgia Meloni sa che Fratelli d’Italia ha la necessità di acquisire forza sui territori e questa sentenza, persino al di là di quello che potrebbe accadere in Veneto, libera regioni strategiche a partire dalla Lombardia. Un calcolo politico, nulla di più. Dopo di che, in punto di diritto il fatto che per molti anni sia stato tollerato un vulnus non vuol dire che quel vulnus non debba essere superato.
Tanto premesso, non crediamo sia necessario ricorrere ai poteri paranormali per provare ad interpretare la possibile strategia di De Luca in vista delle regionali. Il governatore, nel corso della sua diretta di venerdì, ha detto praticamente tutto. Dal minuto sette al minuto nove ha dettato i termini dell’accordo possibile e necessario, termini probabilmente già ampiamente condivisi tanto con il Nazareno che con Giuseppe Conte, che alla vigilia della sentenza della Consulta è stato beccato a pranzo, in un ristorante romano, con Piero De Luca.
La parola chiave è continuità, la stessa continuità evocata dal commissario regionale del Pd, Antonio Misiani, che in una nota diramata pochi minuti dopo il verdetto della Consulta ha chiarito che in Campania il Pd punterà alla costruzione di una coalizione quanto più larga possibile, sul modello Napoli, muovendo dal lavoro fatto in questi dieci anni. Su questo presupposto De Luca terrà unita la sua maggioranza fino alla fine del mandato, dunque sarà il garante di tutti gli uscenti. Quindi pretenderà mani libere nella selezione dei candidati che arruolerà nelle sue due liste, la prima si chiamerà “Campania Libera” e la seconda “A testa Alta”, e sulla base dei rapporti di forza che emergeranno dalle urne pretenderà le dovute compensazioni nella prossima giunta. Infine il nodo del candidato. Il governatore non mette in discussione il diritto dei Cinque Stelle di esprimere il prossimo Presidente della Regione, ma ha chiaramente lasciato intendere che la scelta non potrà cadere su Roberto Fico perché, dice, serve una persona che sappia governare per evitare che la Campania e Napoli tornino nella palude. L’alternativa ovvia si chiama Sergio Costa. Condizioni che probabilmente ha già messo sul tavolo da tempo, condizioni che tanto Schlein quanto Conte non avranno problemi ad accettare. La Campania, d’altro canto, vale tutto.