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POLITICA

Covid card, la sublimazione del deluchismo

La sentenza della Corte dei Conti che condanna il governatore a risarcire 609mila euro a Regione Campania non concede appelli in punto politico. È la condanna impietosa di una idea di governo della cosa pubblica funzionale esclusivamente ad alimentare il consenso, fondata sul primato della narrazione della realtà sulla realtà medesima. Il che, tuttavia, non impedirà a De Luca di proseguire nel suo show

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Vincenzo De Luca, lo sapete, è stato condannato dalla Corte dei Conti a risarcire 609mila euro a Regione Campania, soldi spesi per realizzare le famigerate covid card regionali in piena pandemia, giudicate «un inutile duplicato del green pass nazionale». I giudici definiscono «velleitaria» l’operazione covid card, insistono sull’ostinazione illogica di De Luca nel voler andare avanti, sottolineano che quelle card erano inutilizzabili, persino per entrare in Consiglio regionale, ovvero, come il governatore poté sperimentare in prima persona, per accedere al consolato francese.

Dunque si tratta di una condanna scontata e persino generosa, rispetto alla quale, come da copione, De Luca ha rilanciato annunciando l’impugnazione, funzionale a congelare l’esecutività della condanna di primo grado. Va infatti chiarito che l’esistenza del contenzioso non determina l’incandidabilità del governatore uscente, perché a dispetto di quel che accade in sede civile o amministrativa, dove è contemplato l’istituto della sospensiva, l’esecutività di una sentenza di primo grado della Corte dei Conti è congelata nello stesso momento in cui quella sentenza viene impugnata. Dunque impugnando la sentenza De Luca si mette al riparo da qualsiasi rilievo di incandidabilità, contrariamente da quanto sostenuto, per esempio, dal coordinatore regionale di Forza Italia Fulvio Martusciello.

In punto politico, tuttavia, questa sentenza assume particolare significato perché la vicenda delle covid card, per quanto lunare e grottesca, o proprio perché tanto lunare e tanto grottesca, è la sublimazione del deluchismo, di una idea di governo della cosa pubblica funzionale esclusivamente ad alimentare il consenso, fondata sul primato della narrazione della realtà sulla realtà medesima.

Bisogna riconoscere che Vincenzo De Luca, da questo punto di vista, è un fuoriclasse. Non ha rivali e la nostra non è semplicemente una critica. Perché la politica è anche questo, è anche suggestione. D’altro canto il vero motore del consenso, a queste latitudini, è sempre stato il bisogno, senza il quale non esiste l’illusione di un futuro prossimo e migliore del presente, nella stessa misura in cui l’arretratezza trova sempre spiegazione nel vittimismo, nelle responsabilità della storia, nell’elencazione istantanea di nemici pronti all’uso.

A De Luca bastano i modi, bastano i toni da tribuno, basta il pulpito per annullare la realtà, ovvero per lasciarla sul fondo. Non esistono i fatti, non esistono i numeri almeno fintanto che contraddicono la sua narrazione. E quando non è proprio possibile ignorare fatti, numeri e persino sentenze di condanna, a prevalere sono sempre le ragioni della lamentazione, funzionali ad alimentare la retorica della rivoluzione, dell’orgoglio ritrovato, ovvero dell’assedio. E allora ecco che il povero governatore sarebbe stato condannato per il reato di efficienza, a dispetto dei fatti, delle evidenze segnalate nella sentenza.


Potrebbe funzionare anche stavolta, perché a queste latitudini siamo stati abituati da sempre ad assecondare il sentimento della speranza, a scambiare i diritti per favori, a rincorrere la suggestione di un futuro inafferrabile che proprio per questo, forse, rende questo eterno presente rassicurante. Più misuriamo empiricamente la nostra arretratezza maggiore è la nostra necessità di credere nell’immediatezza di un avvenire migliore. Non conta l’oggi e non conta ieri, non contano nemmeno gli ultimi dieci anni. Conta domani, l’indefinito domani che non arriva mai. E nessuna evidenza ci può negare questo diritto. Figurarsi una condanna della Corte dei Conti.

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