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ECONOMIA

Marino De Lucia, l’ultimo dei calzolai beneventani: ‘Appassioniamo i giovani all’artigianato e torniamo a ripopolare i centri storici con servizi adeguati’

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In questo particolare momento storico riparare una scarpa equivale a risparmiare e, a livello ecologico, significa meno inquinamento e meno spreco, ma soprattutto rappresenta un gesto di ribellione verso una società consumistica. A spiegarmi questa lezione è Marino De Lucia, calzolaio da decenni, uno degli ultimi eroici artigiani rimasti nel centro storico di Benevento.

Marino è un lavoratore che ha resistito ai grandi cambiamenti della società e alla burocrazia asfissiante. Nel 2026, però, appenderà gli attrezzi al chiodo e chiuderà i battenti della sua bottega in piazzetta De Martini, a due passi dal corso Garibaldi e da Palazzo Mosti. La vita di oggi non gli appartiene: quella di un mondo esasperato dall’acquisto ‘usa e getta’ e dal commercio elettronico, dove sono banditi verbi come ‘aggiustare’, ‘rammendare’ e ‘recuperare’.

Non gli appartiene questo tempo che ha ‘dipinto’ lui e i suoi colleghi di laboratorio come un mondo residuale, schiacciato dalla feroce concorrenza esercitata dalla grande distribuzione, destinato inesorabilmente al declino. Resta il dolce e malinconico ricordo di una vita passata, genuina e felice, dove i centri storici erano il cuore pulsante delle città, con le botteghe aperte fino a tardi e le strade piene di gente. “Non c’era tutta questa abbondanza, avevamo un paio di scarpe e un paio di pantaloni. Ma ci bastavano. Nonostante i sacrifici e le difficoltà, infatti, era un mondo pieno di solidarietà, di condivisione, di collaborazione e di valori veri. Un mondo dove le cose, così come i rapporti, si riparavano e non venivano sostituiti con troppa facilità”.

Riavvolgiamo il nastro. Dalla tua famiglia hai ereditato la passione per il settore delle calzature…
Papà Agostino, originario di Santa Maria a Vico, si trasferì a Benevento. Lui era il vero artigiano di casa, in quanto costruiva scarpe di qualità: dalla realizzazione dei prodotti artigianali passò poi anche alla vendita aprendo un negozietto in via Capitano Salvatore Rampone. Mio zio Giuseppe Porrino aveva invece a Napoli un piccolo calzaturificio: parliamo del dopoguerra. Io e i miei sette fratelli siamo cresciuti tra le scarpe, giocavamo nel deposito tra le scatole. Abbiamo da sempre respirato questo ambiente. Nei vicoli, prima, c’erano le botteghe: giocavamo e ci fermavamo a guardare. C’era la voglia genuina di rubare il mestiere, di osservare e di imparare.

Come si è trasformato in un lavoro?
Papà Agostino aveva un locale in via San Gaspare del Bufalo, a pochi metri da piazza Orsini, con all’interno una macchina da cucire e un’altra per le rifiniture. Ero un ventenne affascinato da un mondo che aveva sempre fatto parte della mia vita grazie a mio padre e ai miei zii. Iniziai quasi per gioco con l’intenzione di impegnare un po’ del mio tempo. Da lì decisi di fare mio il mestiere, spinto anche dalla voglia di autonomia finanziaria. Papà mi ha dato gli input giusti, in molte cose fondamentali mi ha guidato e supportato, il resto l’ho fatto io con una formazione da autodidatta. Era il 1983, avevo 23 anni. Così iniziò la mia avventura professionale: sono qui da 41 anni. 

Hai mai pensato di tramandare questo ‘vecchio sapere’ ai tuoi figli?
Ho preferito evitare e loro hanno scelto la strada dello studio. Sono contento che abbiano preferito il percorso universitario. Oggi non è più come una volta: avere una bottega e una partita iva comporta tanti sacrifici, pensieri. Rispetto al passato, si fa fatica a far quadrare il bilancio. L’artigiano ha perso la centralità che aveva un tempo con le riparazioni. Un tempo aprivo la bottega e lavoravo fino a tarda sera: era un via vai di gente e di richieste. Ora invece…

Cosa rappresenta per te questo lavoro?
L’artigiano è un simbolo di sacrificio, è una missione che dura una vita, è crescita personale e professionale, è impegno e formazione continua. E’ la manualità che purtroppo sta scomparendo per lasciare posto ad altre professioni.

Come è cambiato il lavoro in questi anni?
In 41 anni questo mestiere mi ha portato a crescere, aggiornarmi continuamente, rischiare e soprattutto sbagliare. Nel corso del tempo mi sono adeguato a nuove lavorazioni, a nuovi prodotti, a sperimentazioni. Spesso, prima di addormentarmi, penso alle soluzioni da adottare. Il giorno seguente vengo in bottega e le metto in pratica. L’attività è cambiata tantissimo; non è più solo tacchi e suole, ma un ventaglio molto più ampio di servizi rivolti a prodotti di altissima qualità: manutenzione, lavaggio e cambio di colore alle scarpe, restauro di vecchie borse, riparazione di capi firmati. Oggi la gente è attenta al dettaglio, al lavoro di fino. 

Raccontami una curiosità: hai una collezione di scarpe o borse non ritirate? Ci sono aneddoti legati ai clienti?
Un episodio divertente: clienti venuti dopo tre anni a ritirare la merce riparata e non ricordavano neanche il colore delle scarpe o il nominativo che mi avevano lasciato. “Vabbè ci abbiamo provato!”, mi hanno detto col sorriso. Fortunatamente spesso riesco a risolvere e restituire le scarpe a qualche clienti sbadato. Ho la pazienza di conservare tutto negli scaffali del deposito per diversi anni…

Una recente indagine parla di un crollo delle attività artigiane nell’ultimo decennio. Quali le cause secondo te?
Negli anni è venuta meno la formazione sul campo, la pratica concreta. L’invecchiamento progressivo della popolazione artigiana, provocato in particolar modo anche da un insufficiente ricambio generazionale, la concorrenza dell’e-commerce, le tasse e l’eccessiva burocrazia hanno fatto il resto, costringendo molti a gettare la spugna. Una parte della “responsabilità”, se così si può definire, è ascrivibile anche a tantissimi consumatori che in questi ultimi anni hanno cambiato radicalmente il modo di fare gli acquisti, sposando la cultura dell’usa e getta, preferendo il prodotto fatto in serie e consegnato a domicilio.

Il suo appello a chi è rivolto?
Alla politica direi di sostenere il settore puntando sulla semplificazione burocratica. Negli ultimi anni c’è stato un accumularsi di incombenze che sovraccaricano un settore già di per sé affaticato: siamo oberati di pensieri e scartoffie per le richieste sempre più stringenti dello Stato. E’ difficile restare a galla: conosco tanti della mia generazione che hanno mollato perché non riuscivano ad aggiornarsi con pos, registratori di cassa telematica e nuove tecnologie da adottare nei laboratori. Un altro appello è al mondo dell’istruzione: anche negli istituti scolastici si investa maggiormente sugli artigiani, ultimi custodi di antichi saperi e di un patrimonio inestimabile. Bisogna incentivare le ‘scuole di mestiere’ e stimolare i giovani. Bisogna lavorare all’orientamento scolastico e all’alternanza tra la scuola e il lavoro, rimettendo al centro del progetto formativo gli istituti professionali. E poi mi permetta di aggiungere una cosa…

Prego.
Bisogna rivitalizzare i centri storici, che un tempo erano lo scenario stupendo dove pullulavano botteghe e negozi di vicinato. Con le signore davanti casa a chiacchierare e i bambini a giocare in strada. Se non li rendiamo nuovamente attrattivi – con servizi e negozi, incentivando e premiando chi riapre bassi e locali, migliorando la mobilità e agevolando le possibilità di parcheggio – assisteremo inevitabilmente ad un definitivo spopolamento. Sono ormai ridotte al lumicino le attività storiche che ospitano calzolai, salumieri, fabbri, falegnami, radiotecnici, orologiai, pellettieri, sarti, tappezzieri. Attività che hanno contraddistinto la storia di molti quartieri, piazze e vie delle nostre città, diventando dei punti di riferimento per le persone che sono cresciute in questi luoghi.

Centri storici vuoti: scompaiono luoghi di aggregazione…
Ha centrato il punto. Con meno botteghe, laboratori e negozi di vicinato, diminuiscono i luoghi di socializzazione a dimensione d’uomo, scemano i rapporti umani, gli incontri, le chiacchiere e tutto si ingrigisce, penalizzando soprattutto gli anziani. Senza l’interazione delle persone, sono luoghi senza anima.

Come lo immagina il futuro?
Ho sempre lavorato da quando ero giovanissimo e non riesco ad immaginarmi senza i miei attrezzi. Ma l’eccessiva burocrazia mi spaventa e mi fa orientare verso la chiusura definitiva. La città? Sono legato ad una Benevento che aveva il centro storico come cuore pulsante. Sarà il progresso, sarà la mancanza di opportunità lavorative per i nostri giovani, ma la vedo come una pianta bellissima che continua ad appassire. Dobbiamo credere nei nostri giovani, che sono pieni di qualità: bisogna solo tirarle fuori. Non tutti, infatti, sono portati per il computer e per le nuove tecnologie: alcuni aspettano soltanto la persona giusta che li faccia appassionare e li stimoli a mestieri che andrebbero tutelati come patrimoni dell’umanità.

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