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ECONOMIA

Da imbianchino a imprenditore di successo. Guido Sparandeo tra auto e calcio: “Il primo salone nel ’77. La Strega? Gioie e dolori. Ma lo rifarei ancora”

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Negli States si parlerebbe di “Self-made man”. Espressione coniata, pare, da un senatore del Kentucky per descrivere Benjamin Franklin: giornalista, scienziato, politico, tra i Padri Fondatori degli Usa. Col trascorrere degli anni, poi, la formula è stata spesso utilizzata per raccontare le parabole di uomini di affari capaci di costruire dal nulla la propria fortuna. Insomma: il mito del sogno americano. E, in effetti, è la storia di un imprenditore che vi raccontiamo questa domenica. Ma il riferimento a stelle e strisce si chiude qui. Perché nell’immaginario collettivo “Self-made man” è anche un po’ l’esaltazione dell’individualismo. E sarebbe ingeneroso per un uomo che ha sacrificato tempo, affetti e denari per una delle questioni più care ai beneventani: la Strega. E – udite, udite! – lo rifarebbe ancora. I colori giallorossi, d’altronde, rappresentano una delle sue due grandi passioni, l’altra è l’automobile. Impossibile tenere il conto di quante ne ha vendute considerato che sul mercato opera – ininterrottamente – da quarantasette anni. Per aprire il suo salone, nel 1977, ha compiuto una scelta per l’epoca folle, rinunciando al posto fisso. “Mia madre mi voleva cacciare fuori di casa: e mo’ come ti sposi?”. Ma è così che Guido Sparandeo si è fatto da solo. Ha iniziato da imbianchino – magari nella speranza di aver ereditato un po’ del talento artistico del padre Arturo, pittore che nei primi decenni del secolo scorso ha realizzato e colorato praticamente tutte le insegne dei locali della Città (sua anche l’incisione sopra il portone di ingresso di palazzo Paolo V) –, finirà da imprenditore di successo.

Gli inizi?

“Il 5 novembre del 1977, con i veicoli della Carrozzeria Fissore. Per aprire il salone lasciai il mio posto da impiegato al Comune di Benevento. Mia madre mi voleva cacciare fuori di casa: “e mo come ti sposi?” mi disse. Ma la passione per questo lavoro era grande. Poi alla Fissore cominciarono ad aggiungersi altri marchi: Scioneri e poi la Fiat Giannini, che era un po’ la concorrenza della Abarth”.

A proposito: la sua prima auto?

“Una Fiat Cinquecento. Un regalo di mio padre dopo il mio congedo da militare. Usata, ovviamente”.

Torniamo all’apertura: fine degli anni Settanta, il boom economico era già un ricordo. Quanto è stato complicato?

“Tanto. Innanzitutto perché io non ero nessuno e a Benevento c’erano due grosse concessionarie, Zoppoli e Taddeo. Se non sapevi muoverti ti mangiavano in testa. Per emergere non c’era altra strada se non quella del sacrificio: sempre a disposizione del cliente, assistenza nei giorni festivi, pagamenti agevolati. E poi Benevento era una Città in crisi, anche per un impiegato non era facile accedere a un finanziamento per comprare l’auto”.

Con risultati?

“Risultati buoni anche se negli anni Ottanta la competizione era enorme: Volkswagen, Bmw, Citroen, Ford. La svolta decisiva nel 1992 quando con piacere e onore ho cominciato a rappresentare la Opel. Furono loro a contattarmi, perché erano scoperti sul territorio e perché con la Fiat stavo facendo numeri importanti. Ricordo che raggiungemmo l’intesa in pochi giorni. La mole di lavoro fu subito importante: praticamente non chiudevamo più, aperture anche il sabato e la domenica perché ce n’era la necessità ma anche la volontà”.

Piaceva così tanto la Opel ai beneventani?

“Tantissimo. Pensi che per ben due volte consecutive fui premiato come miglior dealer dalla Opel per capacità di penetrazione nella Città. Il nostro indice era 17: stava a significare che su cento auto vendute a Benevento 17 erano marchiate Opel. Il legame è durato fino al 2011 quando mi chiesero di allargarmi anche a Campobasso e Termoli. Non me la sentii e il rapporto si chiuse. Ma in serenità, con reciproca gratitudine”.

I modelli più apprezzati?

“Quelle che andavano di più erano l’Opel Corsa, l’Astra, l’Agila. E poi ricordo l’Omega, auto difficile ma signorile, molto amata dalla ‘Benevento Bene’. Pensi che alla chiusura della rottamazione statale arrivammo a chiudere ben 41 contratti in una sola giornata lavorativa. C’era la fila per comprare l’auto, neanche fossimo un negozio di generi alimentari. Ricordo ancora una signora che stanca dell’attesa cominciò a sbraitare per poi andarsene via”.

Rispetto a quegli anni quanto è cambiato il mercato dell’auto?

“Due mondi diversi. Ma c’è da dire che per anni il mercato è stato drogato dall’intervento dello Stato. Per capirci: il contributo statale arrivava fino anche a 3 milioni e mezzo. Aggiungi a questo le agevolazioni che praticavamo noi e arrivavi a pagare un’auto nuova anche 11 milioni. E infatti ne vendevamo anche 110 al mese, di media: vuol dire oltre mille auto in un anno. Oggi arriviamo a quaranta al mese noi, che siamo tra quelli che se la cavano meglio. Anche per merito delle case che rappresento: la Subaru e la Nissan, per cui ho anche l’assistenza di primo livello. Ma il discorso è semplice: con l’equivalente degli 11 milioni di allora, adesso cosa ci compri? Neanche un usato”.

Cambiamo campo: c’è un’altra passione per la quale i beneventani la ricordano con affetto…quella calcistica

“La prima volta nell’89: io il più giovane presidente di calcio in Italia. Allenatore Rocca, che poi ebbe una discreta carriera. Il campionato era la Serie D ed i problemi enormi, complice anche la decisione del Banco di Napoli di non concederci la fideiussione. Quindi, dopo tante peripezie, cedemmo la società a Mario Peca. Un bagliore che durò poco”.

Anni complicati, cosa ricorda della trattativa con Peca?

“Si era guadagnato un po’ di fama perché sul Corriere dello Sport aveva fatto un’intervista per annunciare la volontà di acquistare la Fiorentina. Da Firenze gli risposero che la Viola sarebbe stata ceduta solo a fiorentini. E quindi venne qui, mi spiegò che le sue origini erano sannite, di Ponte. Si presentò da me vestito completamente di grigio, capello cortissimo, un ciondolo che sbucava fuori dalla camicia. Arrivava dalla Svizzera, mi misi a parlare di cioccolata e si offese. Ma non volevo essere scortese e ci capimmo. E alla fine l’accordo lo trovammo”.

Poi però è tornato

“Colpa del mio amore per lo sport, soprattutto per il calcio anche se poi i miei figli hanno preferito la pallavolo. In società ci tornai su invito della politica – sia destra che sinistra. Eravamo in tanti, all’inizio: ricordo Pirozzolo, Nazzaro, Iannace (attuale sindaco di San Leucio del Sannio), l’amico Rillo, qualche imprenditore di Avellino, il presidente Pedicini. Poi mi ritrovai praticamente solo, ma posso dire che svolsi un ruolo decisivo nella salvezza del Benevento”.

Racconti

“Avevamo appena perso una partita, forse la quarta di fila e in diretta tv esonerai Delli Santi. Non ricordo bene ma ci trovammo in diretta entrambi. Io dissi che lo ritenevo un bravo allenatore: “E allora perché mi cacci” – mi rispose. E io: “Perché ora ho bisogno di un allenatore fortunato”. Presi Specchia e ci salvammo nei minuti finali dell’ultima giornata, con un gol incredibile di Mariani. Ma fu decisiva anche una vittoria bellissima contro la Nocerina, gol di Mastroianni e Manni. Che poi a quella squadra non mancavano giocatori bravi: avevamo ripreso Aruta, acquistato Bonfiglio che era un signor attaccante, De Angelis, il Napoli c’aveva dato Ciro Caruso. E poi quello che doveva essere il grande colpo: Calcagno”.

Che non si rivelò un acquisto azzeccato

“Con il Rimini, la stagione prima, aveva segnato 15 gol. Io e Rillo facemmo di tutto per acquistarlo: firmò il contratto alle 3 del mattino. Risultato? Neanche un gol. E la gente che ci fermava: “Ma chi c’avete portato?”.

Più le gioie o i dolori?

“Una parentesi dai lati belli e dai lati brutti. Certo, molto dispendiosa dal punto di vista delle energie, del tempo e delle risorse economiche. Diciamo che ne siamo usciti fuori con le ossa ammaccate ma non rotte”.

Esclude, per il futuro, un nuovo ritorno?

“C’è una premessa da fare: con Oreste Vigorito abbiamo un grande presidente. Anzi, il migliore dei presidenti possibili. Nessuno ci avrebbe portato dove ci ha portato lui. E da tifoso del Benevento, dunque, l’auspicio è uno soltanto: che resti il più a lungo possibile. Ma nell’eventualità di un dopo, per venire alla sua domanda, si formasse una cordata di imprenditori locali – perché non penso possa arrivare qualcuno da fuori – io non mi tirerei indietro. Per l’amore che nutro per i colori giallorossi e per la Città. Sono contentissimo di essere un Beneventano Doc e di vivere qui. E se oggi posso ritenermi soddisfatto e orgoglioso di ciò che ho costruito dal punto di vista professionale è anche merito dei miei concittadini. Ai quali resto grato”.

Prima faceva riferimento agli inviti che le rivolse la politica per entrare in società: e lei a entrare in politica non ci ha mai pensato?

“Per carità, no. Ho dato una mano a qualcuno che mi era più simpatico di altri ma un mio impegno diretto no. Non fa per me. Avevo chiesto a mio figlio se era interessato ma la risposta è stata la stessa. Devo dire, però, che col tempo il mestiere del politico si è avvicinato a quello del commerciante: sembrano sempre più dei venditori”.

E allora chiudiamo con la sua di attività: si è dato una scadenza?

“Lo stimolo è arrivare a cinquant’anni di attività, li compirò nel 2027. Poi vediamo: oggi nessuno dei miei tre figli appare intenzionato a proseguire il mio lavoro. Si occupano di altro, tutti e tre laureati: una soddisfazione per un autodidatta come me che con la scuola non ha mai legato particolarmente, e infatti iniziai a lavorare a 14 anni. Mi dispiacerebbe, però, non lasciare a qualcuno quanto costruito e realizzato in tutto questo tempo. Ma vediamo: magari cambiano idea, magari si appassiona un nipotino… “.

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