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Opinioni

Se prevenire è meglio che curare, da queste parti non ci resta che pregare

Secondo l’ultimo report di Fondazione GIMBE l’82,7% dei medici di base campani sono in età pensionabile. Oggi ne mancano 349, fra due anni 398. Numeri terribili che raccontano di un drammatico vuoto di visione. Lo stesso vuoto di visione che spiega gli altri numeri, quelli relativi alle liste d’attesa, alla carenza di medici e operatori nelle nostre strutture pubbliche, alla crescita esponenziale del privato a dispetto del pubblico. Un vuoto di visione che ha già condannato le aree interne e nel quale il nostro governatore, come i suoi omologhi meridionali, continua allegramente a sguazzare

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L’ultimo report di Fondazione GIMBE ci dice che l’82,7% dei medici di base, in Campania, è in età pensionabile. Considerato accettabile un rapporto di un medico di base ogni 1250 assistiti, nella nostra regione, a conti fatti, ne mancano all’appello 349. Nel 2025 saranno 398, causa pensionamenti.

Numeri sconcertanti, riscontro in tutte le regioni meridionali e che descrivono meglio di qualsiasi analisi un disastro che grava in primo luogo, manco a dirlo, sui territori marginali interni, caratterizzati da piccole e piccolissime comunità lontane dai grandi centri urbani e dalle principali strutture ospedaliere, spesso molto distanti l’una dall’altra, dove il medico di base rappresenta spesso l’unico presidio, l’unico reale strumento di prevenzione.

Numeri che suonano grotteschi se si considera che nella sola Campania sono previsti investimenti per 380 milioni di euro (fondi PNRR – Missione 6-Salute) per finanziare 100 interventi di ristrutturazione e la costruzione di 33 nuove strutture su tutto il territorio regionale, funzionali all’attivazione di 169 case della comunità, 45 ospedali di comunità e 58 centrali operative territoriali. Strutture che una volta realizzate sarebbero destinate in buona parte a rimanere chiuse o vuote, visto e considerato che mancano i medici di base e i pochi che ci sono, stando a quanto previsto dalla convenzione stipulata con il Sistema sanitario nazionale, devono aprire gli ambulatori per un numero di ore proporzionale al numero degli assistiti. Un obbligo che incide anche sulla retribuzione.

A rigor di norma, evidentemente, non si comprende in che modo le nuove strutture previste potrebbero concretamente funzionare. A dimostrazione del fatto che non sappiamo dove stiamo andando.

Quei numeri, però, ci dicono molto di più di quel che appare se solo li mettiamo in relazione a tutti gli altri numeri che danno conto dell’agonia in cui versa il nostro sistema sanitario, a quelli relativi alle liste d’attesa, alla carenza ormai strutturale di personale in ogni struttura pubblica, ormai non solo da Roma in giù. Numeri che raccontano della necessità, ormai non più rinviabile, di un grande investimento volto a rigenerare gli organici delle nostre strutture sanitarie, a rideterminare le condizioni perché il pubblico possa tornare ad essere attrattivo, possa recuperare competitività rispetto al privato.

La carenza tanto drammatica di medici di base sui territori ha molteplici ragioni. Molte responsabilità ricadono sulle Regioni e sulle Asl, sull’incapacità di programmazione sui territori che in Campania ha costretto un gran numero di medici ad attendere anche 15 anni per l’assegnazione, ma la prima ragione va ricercata nel fatto che il medico di famiglia non è più considerato un privilegiato, in quanto libero professionista convenzionato che non gode dei diritti di un dipendente del Sistema sanitario nazionale.

Parliamo sostanzialmente di partite iva, per di più soffocate dalla burocrazia, costrette a misurarsi quotidianamente con atti amministrativi e procedure digitali, a rincorrere procedure e moduli. E non a caso si ragiona da tempo sulla necessità di un intervento da parte del legislatore volto a ridefinire le condizioni contrattuali e l’organizzazione del lavoro del medico di base per restituire appeal ad una funzione strategica ed irrinunciabile per garantire a tutti i cittadini il diritto alla salute.

Paghiamo, dunque, un vuoto di visione. I numeri di oggi erano prevedibili già venti anni fa ma nulla è stato fatto per scongiurare la deriva, nulla è stato fatto per invertire la rotta.

Lo stesso vuoto di visione che spiega lo stato di perenne emergenza delle nostre strutture ospedaliere, un vuoto di visione che in Campania si è tradotto in un commissariamento durato oltre un decennio, in tagli ragionieristici e chiusure indiscriminate, in politiche di scientifica desertificazione.

Un vuoto di visione nel quale le nostre classi dirigenti hanno sguazzato e continuano a sguazzare, un vuoto che sino ad oggi ha rappresentato l’alibi dietro cui ogni governatore meridionale ha potuto nascondersi, l’alibi che ci ha consentito di chiudere gli occhi dinanzi alle storture clientelari, agli sprechi, ai disastri e alle ruberie, l’alibi che il nostro amato governatore puntualmente brandisce per dare conto delle strutturali carenze del sistema sanitario regionale a cui non ha saputo porre rimedio, per legittimare decisioni dannose ed inique ai danni dei territori più fragili.

È del tutto evidente che il nostro sistema sanitario ha dannatamente bisogno di nuove energie e nuove competenze, di medici ed infermieri, dunque di ingenti risorse che a dispetto della dottrina Meloni non possono essere recuperate spendendo meglio i pochi spicci destinati da questo governo.

Il punto di fondo è che oggi, in questo Paese, non è più possibile parlare di diritto universale alla salute, perché lo Stato, di fatto, ha deciso di cedere alla logica di mercato, al dogma della sostenibilità. Dove non c’è il pubblico c’è il privato. Laddove conviene, laddove ci sono clienti a sufficienza. Non certo nel Fortore, non certo in Alta Irpinia o nel Cilento profondo.

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