CULTURA
Musica e comicità, Carmine “Rich” Ricciolino tra ricordi, aneddoti e un sogno: “Che bello sarebbe uno Zelig a Benevento”

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Cantante, comico o attore? “Facciamo così, animatore musicale”. Carmine “Rich” Ricciolino fa ballare, ridere, divertire i beneventani da ormai più di quarant’anni. E non sembra avere alcuna intenzione di smettere. Un viaggio alimentato da un talento che i suoi amici non tardarono a scoprire – “Mi dicevano sempre che avevo una grande vena comica. Ma involontaria. Facevo ridere a mia insaputa”- e da una passione ereditata in famiglia: “Mio padre amava la musica, nel 1975 mi regalò uno stereo a cassette e iniziai a cantare”. Da un lato la comicità, dall’altro le canzoni: “Mescolando il tutto sono venuto fuori io. Un autodidatta. Avrei voluto studiare ma gli impegni scolastici e lavorativi non lo consentivano. Ma quello che volevo fare io adesso lo fa mio figlio Cosimo, attore teatrale e cantante”.
Quando hai iniziato a esibirti in pubblico?
“Nel 1979 creai un gruppo insieme con alcuni amici. Iniziammo a girare per locali, alla ricerca di serate. Ma la risposta era sempre la stessa: “Se volete suonare dovete portare la gente” . Insomma, tante porte chiuse”
E poi?
“Poi cominciai a prendere coraggio, proponendomi anche con qualche sketch. E la risposta iniziava a cambiare: “Mi sa che ti prendo come comico”. Proprio l’altro giorno, un vecchio gestore di un locale me lo ha ricordato”.
Cosa?
“Che a una mia presentazione, nel rispondere alla classica domanda “ma che fai?”, gli risposi più o meno così: “Simm no quartett, a tre di noi, io e fratim”. “Ma perché tuo fratello canta?” – “No”. Ero solo io”.
E funzionava?
“Alla fine sì, iniziammo a prendere le serate. Poi continuai con altri gruppi: “Benevento Nord” con Gioacchino Corona, Lello Principe, Vinicio Cecere. Poi “Ok band”, quindi il duo “Rich & Gill” e i primi sketch con le televisioni private, sempre tra musica e comicità”.
Anche da solo, però, funzionavi: indimenticabili i tuoi personaggi
“Ne ho fatti molti, una trentina almeno”.
E un picco di popolarità assoluto con Alberto e Ninetto
“I personaggi più popolari, senza ombra di dubbio. Un successo incredibile, caricata sui social quell’intervista fece 120mila visualizzazioni in una settimana. Impensabile. Anche per come era nata”.
Cioè?
“Per caso, eravamo a casa io e mio figlio. “Prendi la telecamera, facciamo un’intervista doppia con due beneventani doc”. E credetemi, di tutto lo sketch solo cinque o sei domande avevamo preparato. Poi tutta improvvisazione. Io sono così, basta non chiedermi il bis”.
Un successo impensabile, dicevi, ma che trova una spiegazione nella tua capacità di rappresentare con ironia vizi e virtù dei beneventani. Come con il tifoso anni Settanta.
“Mi ha sempre divertito raccontare il beneventano medio. Siamo tutti polemici, quasi fino al disfattismo. Se confidi a un amico la tua volontà di aprire un’attività stai certo che ti risponde “ma chi tu fa fa’?”. Mai una pacca sulla spalla, un incoraggiamento. E nel calcio pure è così, basta andare al bar il lunedì e parlare con i tanti ds e tanti allenatori. Ma l’ho sempre fatto con ironia, senza mai puntare il dito contro qualcuno”.
Qualche anno è passato: è cambiato un po’ il Beneventano?
“Ma no: è questione genetica. I beneventani di allora hanno trasmesso tutto ai figli”
Mai pensato di portare la tua ironia ‘fuori’ le mura della Città?
“Ti racconto: partecipai nel Sannio a una serata organizzata dove c’erano anche dei comici di ‘Made in Sud’. Dopo le mie scenette mi chiesero di andare a fare un provino. Non ci andai. Non perché non mi interessasse, ma mi frenava il fatto che avrei dovuto lavorare su testi scritti e preparati da altri. Diciamo pure un po’ di paura. Ma è che sono abituato a fare cose mie, a improvvisare tanto. Cose che non si sposano con determinati contesti dove tutto è organizzato nei dettagli”.
Però ti sei imposto come il principe della comicità beneventana
“Alle persone piace e io mi diverto tanto. Sono legatissimo a questa città e al suo dialetto, unico in Campania. Sempre recitato in Beneventano, con un’unica regola: al bando le volgarità. Magari mi avrebbero pure aiutato a far ridere di più in certe situazioni, in certi sketch ma sono sempre stato seguito da famiglie e tanti bambini. E allora meglio di no”.
Restando al calcio, c’è qualche giocatore a cui sei rimasto legato particolarmente?
“Il primo nome che mi viene in mente è Pedro Mariani, anche perché da batterista si divertiva ogni tanto a suonare con noi. In quegli anni era tutto diverso, si organizzavano serate con la squadra, anche per beneficenza. Tutto molto più semplice. Scrissi anche “Giallorosso”, l’inno del Benevento. Facemmo anche il videoclip, con il grande Mauro Ielardi, con i calciatori a cantare”.
Oggi è più complicato?
“E’ diventato tutto più serioso. Prima sentivamo davvero la squadra come un qualcosa di nostro, oggi non è così ma sono i cambiamenti. Va bene lo stesso, restiamo tifosissimi”.
Più complicato anche fare comicità?
“Molto più complicato. E’ proprio l’ironia che ha perso spazi. Prendi la musica, i cantanti più ascoltati dalle nuove generazioni: nei testi l’ironia non c’è mai, prevalgono altri stati d’animo. A Benevento, poi, se parliamo di musica mancano anche i locali. L’ultimo è stato il Morgana. Ormai tutto passa attraverso i social”.
E se è difficile fare musica, figuriamoci cabaret…
“Se di musica se ne fa poco, di cabaret proprio nulla. Dispiace anche perché conservo tanti testi non sfruttati che cederei volentieri a qualche giovane. Eppure sarebbe bello un locale a Benevento sullo stile dello Zelig a Milano: musica e comicità. Ma se lo proponi la risposta già la conosci”.
Sarebbe?
“Ma chi tu fa fa, ma come te vene”.
Tu però non ti fermi
“No, oggi portiamo avanti una tribute band di Renzo Arbore. Tante serate in programma. E poi ho mio figlio da seguire”.
Un bis potresti concederlo, però: per Alberto e Ninetto
“Non lo escludo, ogni tanto ne parliamo. Magari succede e basta, come l’altra volta”.