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Opinioni

Cento milioni, uanm ro’ priatorio!

Questa è la cifra che Regione Campania investe ogni anno in politiche culturali, tra finanziamenti a leggi di settore, Poc, Fsc e fondi europei. Bene, benissimo. Ma cosa è cambiato in Campania nel corso degli ultimi dieci anni? Se e come è cambiato l’approccio della Regione nella gestione delle risorse e sul terreno della programmazione? Niente, clientela era allora e clientela è oggi. Questo è il fallimento di De Luca

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Come certamente saprete, cari lettori, secondo la recente Relazione della Corte dei Conti sulla gestione finanziaria delle Regioni e delle Province autonome la Campania sarebbe l’ultima Regione d’Italia per quanto concerne la spesa per le politiche culturali.

Solo 2,7 euro per ogni residente rispetto alla media nazionale di 17,3 euro. Numeri impietosi che a destra sono stati immediatamente branditi come la prova inequivocabile dell’ennesimo fallimento di De Luca, numeri che qualcuno ha persino utilizzato per vendicare il Ministro Sangiuliano, oggetto degli strali di De Luca solo un paio di settimane fa e papabile candidato del destracentro alla Presidenza della Campania nel 2026, numeri che però, come sottolineato in una nota dall’assessore regionale al Bilancio, Ettore Cinque, non sono riferiti alla spesa delle Regioni ma alla sola spesa delle amministrazioni comunali.

In realtà, ha sottolineato l’assessore, Palazzo Santa Lucia destina ogni anno oltre 100 milioni di euro alle politiche culturali, tra finanziamenti alle leggi di settore, Poc, Fsc, e fondi europei per una spesa pro-capite superiore ai 17 euro.

Nel merito, dunque, quegli attacchi scomposti si sono tradotti nel migliore degli assist per il governatore e i suoi scudieri, ovvero in una magra figura per quanti li hanno pronunziati. A ben vedere, però, la questione è moto più complessa ed è certamente meritevole di maggiore attenzione.

Partendo dal presupposto che i numeri sciorinati dall’assessore Cinque sono assolutamente reali, restano pur sempre numeri. Che in quanto tali sono testardi, certo, ma possono dire tutto e possono dire niente. Dipende sempre da come si leggono.

Dunque la domanda da cui dovremmo muovere per provare a misurare l’operato di questo governo regionale in termini di politiche culturali, valorizzazione territoriale e promozione turistica, è la seguente: cosa è cambiato in Campania nel corso degli ultimi dieci anni? Se e come è cambiato l’approccio della Regione nella gestione delle risorse e sul terreno della programmazione?

Ecco, dinanzi a queste domande i numeri sciorinati dall’assessore Cinque ci restituiscono l’impietosa istantanea di un fallimento senza appello. Perché oggi come ieri le politiche culturali, per la promozione territoriale e per il turismo continuano a rappresentare, al pari delle politiche sociali, delle straordinarie leve di gestione clientelare.

Perché oggi come ieri assistiamo alla scientifica parcellizzazione dei fondi che vengono distribuiti in ossequio al criterio della fedeltà, della vicinanza politica, con il solo obiettivo strategico di favorire riferimenti ed apparati organici al sistema di potere regionale, ovvero di allargare il perimetro di quel sistema di potere distribuendo prebende, accontentando questo o quel sindaco, questa o quella consorteria che con le risorse ottenute potrà foraggiare il proprio sistema sui territori.

E si tratta di un fallimento senza appello perché proprio De Luca, il De Luca che prometteva dieci anni orsono la rivoluzione, fece della battaglia contro la parcellizzazione clientelare delle risorse regionali per le politiche culturali e la promozione del territorio un punto cruciale del suo programma di governo, brandendo, giustamente, quello che per anni abbiamo definito il modello Salerno: mai più fondi a pioggia per gli amici degli amici – prometteva De Luca dieci anni fa – ma poche grandi progettualità strategiche tali da cambiare i destini dei territori, tali da ridefinirne la vocazione identitaria.

Nulla di tutto questo è accaduto in questi anni. Basterebbe ragionare sui POC, sul numero esorbitante di eventi ed iniziative che vengono sistematicamente finanziate, talvolta con cifre semplicemente vergognose, che si risolvono in sagre di paese che tutt’al più fanno segnare il tutto esaurito per un paio di sere senza lasciare nulla al territorio. Basterebbe ragionare sul tenore del dibattito che puntualmente s’innesca, laddove si registrano tagli rispetto all’annata precedente, tra il sindaco di turno che il taglio lo ha subito e la Regione che lo ha deciso.

Basterebbe ragionare su cosa sono le politiche di promozione culturale e turistica nelle aree interne, sul numero di musei, siti archeologici e monumenti inaccessibili che si rilevano a queste latitudini, sulla qualità del calendario degli eventi che segna l’estate dei nostri territori, basterebbe ragionare sull’impatto di ogni evento o iniziativa sull’economia delle comunità.

Il merito di ciò che si propone continua a non contare nulla, il valore della singola iniziativa, sia che si tratti della sagra del caciocavallo o di una rassegna di concerti di musica classica, nemmeno viene preso in considerazione. L’unica programmazione possibile continua ad essere quella che si risolve nella distribuzione dei pani e dei pesci, l’unica programmazione possibile, ieri come oggi, è quella funzionale ad alimentare il consenso degli amici degli amici.

Cento milioni, da questo punto di vista, non sono tanti. Sono decisamente troppi.

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