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Opinioni

Alle Europee, esattamente, per cosa si vota?

Mentre Mario Draghi ed Enrico Letta vengono chiamati a scrivere il futuro delle politiche economiche dell’Unione, nel dibattito pubblico del Belpaese, a poco più di un mese dal voto, non c’è spazio per le grandi questioni che gravano sul presente e sul futuro del vecchio continente. Le elezioni del 9 giugno rappresentano una conta tra i partiti, per misurare i rapporti di forza interni alle coalizioni e la tenuta del governo. Un paradosso solo apparente che ci dice molto anche di quello che accade sui nostri territori. Sannio e Irpinia, come sempre, fanno scuola

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Manca ormai poco più di un mese alle elezioni europee ma le sfide epocali a cui sarà chiamata l’Unione nei mesi e negli anni a venire sono del tutto estranee al dibattito pubblico del Bel Paese. Ancora una volta, e a dispetto di una fase storica che pone sfide epocali e irrinunciabili, che vede l’Europa costretta al bivio, incapace di decidere del proprio avvenire e sempre più relegata alla marginalità, in Italia si guarda alle elezioni europee come ad un passaggio funzionale esclusivamente a misurare i rapporti di forza interni alle due coalizioni, la tenuta del governo, le prospettive di ogni singola forza politica. E sui territori si trasformano nell’occasione per ridefinire gli equilibri, per testare nuove alleanze, per ufficializzare rotture e ricomposizioni, per misurare nuove e vecchie ambizioni. Sannio ed Irpinia, da questo punto di vista, continuano a fare scuola.

Se l’agenda europea non trova il minimo spazio nel discorso pubblico italiano, se i grandi interrogativi sul futuro dell’Unione, se le riforme ormai non più rinviabili nel modello di governance restano sullo sfondo, mentre a tenere banco sono le polemiche interne e i tatticismi, alla periferia dell’impero non si discute di altro se non di candidature, accordi, alchimie tutte funzionali a ridefinire la mappa del potere sul piano locale o regionale, a misurare la forza di ogni clan, di ogni consorteria.

E mentre questo accade, eccoci al punto della nostra riflessione, scopriamo che a ridefinire il futuro delle politiche economiche dell’Unione europea saranno due ex premier italiani, scopriamo che ad Enrico Letta ea Mario Draghi è stato affidato il compito di consegnare ai leader dei 27 Stati membri due rapporti su mercato unico e competitività, due pacchetti di proposte che per un verso andranno a riformare le regole che governano la concorrenza interna all’Unione (Letta) e per altro restituiranno una nuova strategia industriale volta a recuperare i ritardi accumulati rispetto agli altri player globali quali Cina e Stati Uniti (Draghi).
Enrico Letta e Mario Draghi. Il primo sfrattato da Palazzo Chigi da Matteo Renzi, all’epoca astro nascente della politica nazionale, primo profeta della rottamazione antisistema dei tempi nostri, e Mario Draghi, che non più tardi di due anni fa, a pochi mesi dalla fine della legislatura, fu di fatto cacciato a pedate da Palazzo Chigi e bruciato in chiave Quirinale, da Matteo Salvini e da Giuseppe Conte. Letta e Draghi, due giganti che sul piano internazionale, ad ogni latitudine del globo, vengono riconosciuti come tali. Due menti eccelse, due statisti che in questo Paese di nani sono stati messi alla berlina, dati in pasto ad una pubblica opinione ormai disabituata a riconoscere il valore del merito e della complessità, alla perpetua ricerca di parole facili volte a delineare soluzioni altrettanto facili, alla perenne ricerca di una causa da sposare e di un nemico da abbattere, del bianco e del nero.

E a ben vedere questo paradosso solo apparente, il fatto che il futuro del Continente sia stato messo nelle mani di due ex premier italiani costretti a fuggire dall’Italia tra gli insulti, due giganti dipinti come simboli di un potere grigio e distante, burocrati al servizio di chissà quali poteri occulti, ci dice molto anche di quello che accade sui nostri territori, delle logiche che ormai orientano il consenso alla periferia dell’impero, delle ragioni per le quali la rappresentanza ed il governo degli enti locali viene affidata a classi dirigenti palesemente inadeguate, le ragioni per le quali quelli che un tempo erano portatori di voti condannati al lavoro sporco oggi rappresentano le prime linee.

Nel tempo della semplificazione affermare la complessità diventa quasi impossibile, perché la complessità non seduce, non offre soluzioni immediate. Nel tempo dell’uno vale uno tutto ciò che si eleva diventa elitario, la conoscenza diventa un inutile orpello. In questo tempo il consenso si costruisce sul soddisfacimento dell’interesse particolare, sulla capacità di generare hype, su poche parole d’ordine, sulla dicotomia del bianco e del nero. Che si tratti del destino di Avellino o Benevento, che si tratti del futuro dell’Europa. Che poi, a ben vedere, è la stessa cosa.

 

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