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ECONOMIA

Auto ibride, regole UE e rischio deindustrializzazione: il Mezzogiorno alla prova della transizione

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Lo stallo europeo sulle nuove regole per le auto evidenzia una tensione crescente: la definizione del ruolo delle ibride plug-in è ormai al centro di un vero e proprio braccio di ferro tra Italia, Germania e Francia. La sensazione è chiara: un’accelerazione non governata della transizione energetica sta generando effetti industriali molto più profondi del previsto.
Nell’ultima bozza del regolamento emergono segnali di apertura: più flessibilità tecnologica, ricorso ai biofuel, agli e-fuel e, ora, la possibile ammissione dei motori ibridi plug-in, dove convivono motori a combustione ed elettrici. Un passo importante, ma certamente non sufficiente.

Negli ultimi anni l’Europa ha spinto fortemente sulla transizione, fissando obiettivi ambiziosi e tempi estremamente stringenti. Una scelta che nasce da una visione corretta: costruire un continente più sostenibile, competitivo e tecnologicamente avanzato. Ma ciò che accade sul piano industriale non può essere ignorato.

Il settore automotive, la prima industria europea, è sotto pressione come mai prima d’ora. E con esso tutti i comparti che ruotano attorno alla produzione di un veicolo: microelettronica, acciaio, chimica, materie plastiche, meccatronica, robotica, software, intelligenza artificiale. Un ecosistema immenso, fatto di competenze, territori, filiere e persone.

Nel dibattito europeo sulle nuove regole dell’automotive si discute di tecnologie, emissioni e scadenze. Molto meno, però, si parla dei territori che quelle regole dovranno reggerle. Eppure è proprio lì, nei distretti produttivi e nelle aree più fragili del continente, che la transizione sta mostrando le sue contraddizioni più evidenti.

Nel Mezzogiorno d’Italia questo rischio è concreto e misurabile. Secondo Svimez, quasi il 90% della produzione nazionale di autoveicoli è concentrata negli stabilimenti del Sud. Proprio qui, nel 2024, si è registrato un crollo produttivo superiore alle 110.000 unità (-25%). Lo stabilimento di Melfi ha perso circa 90.000 veicoli (-62%), Pomigliano ha invertito il trend positivo (-6%) e Atessa ha segnato un -10%.

Questi siti — insieme allo stabilimento di Cassino, inserito nel triangolo industriale Cassino–Melfi–Pomigliano — costituiscono il cuore del sistema produttivo automobilistico italiano. È in questa geografia che si concentra una quota rilevante dell’occupazione e della ricchezza generate dalla filiera: circa 300.000 addetti e un valore aggiunto stimato in quasi 13 miliardi di euro nel Mezzogiorno. Le ricadute sono pesanti non solo sul piano produttivo e occupazionale diretto, ma anche sull’intero indotto, composto in larga parte da piccole e medie imprese che rappresentano l’ossatura economica dei territori.

Il punto non è mettere in discussione la transizione. Il punto è come la stiamo realizzando.
L’obbligo di riconversione totale verso l’elettrico, i divieti sui motori tradizionali, la rapidità delle scadenze e l’assenza di strumenti efficaci per accompagnare le imprese stanno creando condizioni pericolose: una deindustrializzazione accelerata dell’Europa.

Migliaia di PMI stanno affrontando un cambiamento epocale senza tempo, risorse e stabilità adeguati per adattarsi. Molte sono aziende familiari o altamente specializzate: pilastri silenziosi della catena del valore, capaci di sostenere innovazione, qualità e competitività. Ed è proprio su di loro che l’impatto è più forte.

Nel frattempo, la concorrenza internazionale — in particolare asiatica — avanza con strategie industriali molto più coordinate, con tempistiche più realistiche e con un sostegno statale massiccio. Così si è generato un divario competitivo che rischia di diventare strutturale.

Una trasformazione di questa portata richiede innanzitutto maggiore flessibilità tecnologica, aprendo davvero a un mix di soluzioni: ibride plug-in, carburanti alternativi, e tutte le tecnologie che possono accompagnare il percorso verso la decarbonizzazione senza spezzare le filiere produttive.

Serve poi più realismo nelle tempistiche, perché le imprese — soprattutto quelle della componentistica — hanno bisogno di tempo per adattarsi, riconvertirsi e investire con serenità.

Allo stesso tempo diventa fondamentale costruire politiche industriali chiare e coordinate a livello europeo, capaci di dare una direzione precisa e condivisa, evitando frammentazioni che rischiano di indebolire il sistema invece di rafforzarlo.

A questo va affiancato un sostegno concreto agli investimenti: strumenti dedicati alle PMI, che rappresentano la spina dorsale delle filiere e che oggi vivono il cambiamento con maggiori difficoltà.

Infine, ma non meno importante, è indispensabile un quadro regolatorio stabile e prevedibile. Senza stabilità normativa, nessuna impresa, grande o piccola, può pianificare in modo serio il proprio futuro.

La sostenibilità non può diventare sinonimo di fragilità industriale. La transizione deve accompagnare le imprese e i territori, non metterli all’angolo. Evitare che il Mezzogiorno perda capacità produttiva significa evitare che l’Europa perda coesione economica e sociale. Non è una battaglia ideologica, ma una questione di realismo, competitività e tutela delle comunità che ogni giorno costruiscono valore.

Pasquale LampugnaleCeo di Sidersan Spa

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