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ECONOMIA

La bottega al Triggio, l’esempio di papà Giuseppe. Simona Donatiello e il successo di Incas Caffè: “Orgogliosi di far sapere al Mondo chi siamo e da dove veniamo”

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Vedete quanto poco ci vuole per rendere felice un uomo: una tazzina presa tranquillamente qui fuori… con un simpatico dirimpettaio…”. Nel gennaio del 1946, al Teatro Eliseo di Roma, Eduardo De Filippo mette in scena “Questi fantasmi”. Chi l’ha vista (c’è pure chi non l’ha vista?) ricorderà di certo l’inizio del secondo atto, il monologo di Pasquale Lojacono seduto sul suo balcone. Con minuzia, accuratezza e devozione Pasquale descrive ogni singola fase del processo di preparazione della sua tazza di caffè. Ce li immaginiamo così Vincenzo Donatiello e sua moglie Anna nella “Bottega Nuova”, attività aperta al Triggio – all’epoca il cuore della Benevento popolare – negli Anni Venti. Vendevano generi alimentari e già questa era una novità: la spesa si faceva al mercato. Ma la rivoluzione vera fu commerciare esotici chicchi verdi di caffè crudo. “Poi sempre mio nonno, un torrefattore ante litteram,  li tostava, lasciandosi andare anche alla sperimentazione”. La storia di Incas Caffè comincia così. A narrarla, per noi, è Simona Donatiello, nipote di Vincenzo e figlia di Giuseppe che di questo racconto è la figura chiave. “Mio padre era cresciuto nell’attività di famiglia. E’ stato lui, negli Anni Sessanta, a fondare Incas, a lanciarla, a farla crescere. Ha fatto il lavoro di tre generazioni. L’imprenditorialità ce l’aveva nel sangue e infatti era stato pure direttore commerciale per diverse e importanti aziende. Non ci sono dubbi: il successo di Incas è merito suo. Così come suo è il merito di aver trasmesso a noi figli la passione per il caffè”.

Si spiega così il successo di una storia imprenditoriale che è innanzitutto una storia di famiglia
L’impegno di mio padre è sempre stato rivolto innanzitutto ai valori. Sbirciando tra le sue carte, qualche anno fa, mi sono imbattuta in una sua frase che mi fa piacere citare perché utile a sintetizzare il tutto. E anche perché poi l’ho fatta mia: “La ricchezza non sta nel profitto ma nel lavoro”.

Il nome Incas: perché?
Un acronimo, sta per INdustrieCAffèSannio. Non solo la famiglia: mio padre era legatissimo anche al territorio. Era innamorato di Benevento, del Sannio, della Campania. Ricordo che su questa cosa ci scherzavo su, trovavo l’Arco di Traiano sui nostri cataloghi e provocavo mio padre: “Ma non ti sembra un po’ da provinciali?”. “No, no. Va bene così. E’ la nostra identità, va rivendicata” – mi rispondeva”.

Chi aveva ragione?
Lui, ovviamente. E occupandomi di marketing l’ho compreso subito. E infatti oggi sul nostro packaging c’è la skyline dei monumenti di Benevento. Quando l’azienda di grafica ci propose questa soluzione mi recai dal maestro Mimmo Paladino per chiedere l’autorizzazione a usare il suo cavallo. Ed è stata una grande gioia ricevere dal Maestro un’adesione piena. Ha riconosciuto il legame tra noi, le tradizioni e il territorio. E per noi è un piacere portare in giro per il Mondo prodotti che raccontano chi siamo e da dove veniamo”.

Fin dove arrivate con la distribuzione?
La nostra prima quota di mercato, evidentemente, è data dal Sannio, dall’Irpinia, da Caserta e da regioni limitrofe come Abruzzo, Molise, Puglia. Ma abbiamo una buona distribuzione anche in Sardegna e a macchia di leopardo un po’ in tutta Italia. Quanto all’estero, siamo presenti in Francia, Svizzera, Germania, Austria, Irlanda. E poi in Canada – con due grandi distributori a Montreal e Toronto – negli Stati Uniti d’America, in Venezuela. E ora stiamo andando in Lituania, l’Est Europa rappresenta un mercato interessante, stimolante. La nostra specializzazione, come noto, è sul settore Ho.Re.Ca.:  alberghi, ristoranti, bar. Ma anche per il canale Ocs – uffici e privati – c’è una produzione importante di cialde e capsule. E poi proseguiamo sempre con il nostro caffè da moka”.

Domanda d’obbligo: cialda, capsula, moka, il suo caffè preferito?
Per me sempre moka. Ed è la prima cosa che faccio la mattina, appena sveglia. E’ un rito: il profumo che regala la moka è ineguagliabile. E anche l’aroma è più morbido. Non faccio fatica a confidarle che una giornata che inizia senza il mio caffè è una giornata che inizia male. Come può immaginare, comunque, ne sono una grande consumatrice”.

Il primo ricordo che ha del caffè e dell’azienda?
Da bambina. Io sono cresciuta insieme a Incas, possiamo dire che il nostro è un amore fraterno. E infatti coinvolge anche i miei fratelli e l’intera famiglia. Da piccola era una gioia ‘scappare’ con mio padre per andare in azienda. Era come entrare in un mondo magico: ricordo ancora i profumi, i suoni della produzione. Mi incantavo al punto di essere d’intralcio per i lavoratori”.

Dov’era la prima azienda?
La produzione era sul corso Garibaldi, in un palazzo elegante su due piani che affacciava sul passeggio. Un piccolo laboratorio. Poi negli Anni Ottanta ci trasferimmo a San Vitale: c’era anche un ampio spazio di giardino dove potevo giocare con altri bambini. Tra la fine degli Anni Novanta e l’inizio del Duemila, infine, il passaggio a Pezzapiana. Senza accorgermene l’azienda era diventata grande. E io con lei. E così la famiglia. E a tenere tutto insieme, come in un solo grande abbraccio, mio padre”.

Personalità che a Benevento ancora tutti ricordano con grande emozione
Un rapporto speciale, il suo, con la Città. Lo hanno descritto bene in un libro Nico De Vincentiis e Mario Pedicini. D’altronde si può dire che raccontando Giuseppe Donatiello racconti pure Benevento, almeno per un certo periodo di anni: solo la guida della ConfCommercio lo ha impegnato per trent’anni. Ma conservo nitido soprattutto il ricordo del tempo trascorso da assessore alle Politiche Sociali. A casa lo vedevamo pochissimo. E quando tornava, la sera, spesso era affranto. “Papà ma che succede? – “E’ arrivata una signora, in assessorato, ha un problema grosso. Bisogna trovare il modo di fare qualcosa”. Ecco: mio padre era questo. La politica intesa davvero come servizio per la comunità. Una predisposizione che era già della mia nonna: Terziaria francescana (come poi mio padre), rimase sola in bottega negli anni della seconda guerra mondiale perché mio nonno finì prigioniero in Australia, dove rimase non so per quanti anni. Ma la nonna, terminato il lavoro, con le poche forze ancora a disposizione, prendeva i suoi figli e la sera andava ad accudire gli anziani rimasti soli”.

Per tornare a lei: la cosa che le piace di più del suo lavoro?
Questo lavoro mi ha dato tanto e continua darmi molte gratificazioni. Per rispondere basterebbe già dire il piacere di tornare a casa e portarmi dietro il profumo del caffè. La verità è che mi sento una donna fortunata: la mia storia familiare e la mia storia aziendale mi hanno dato tanto. Anche la possibilità di viaggiare tantissimo e conoscere realtà diverse”.

Tra le tante attività collaterali di Incas si segnala un impegno continuo nella formazione
Parliamo dell’Academy. E’ un discorso che riguarda la cura della qualità. E anche in questo caso l’impostazione è quella data da mio padre. Per intenderci: mio fratello, che è l’amministratore dell’azienda ma anche il responsabile della produzione, si reca direttamente nei posti produttori per verificare la qualità del caffè che acquistiamo. Ecco: la stessa attenzione la poniamo in tutto. La formazione continua serve ad assicurare la qualità del caffè nei luoghi dove si utilizza Incas: il barista deve conoscere la macchina, la miscela, la macina. I corsi servono a questo, innanzitutto. E sono proprio le aziende a richiederli. E poi c’è tutta la parte della ‘latte art’ mirata ad affiancare la bellezza alla bontà”.

Quale il futuro per un’azienda che lavora per un prodotto così tradizionale come il caffè?
Intanto mai allontanarsi dalla propria identità. Mai. E poi innovando, mantenendo il passo con le nuove esigenze, a partire da quelle ambientali e legate alla sostenibilità. Negli Anni Novanta fummo i primi – forse assieme a noi soltanto Illy – ad acquistare una macchina cialdatrice, puntando sulle cialde per il monoporzionato. Sicuramente la soluzione meno impattante. E ancora potrei citare l’acquisto di furgoni a metano, o la politica per gli imballaggi. D’altronde il caffè è stare bene. E per stare bene occorre rispettare territorio e ambiente”.






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