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Opinioni

Regione, con lo sbarramento al 2% un’operazione di igiene democratica. S’annunciano tempi duri per consorterie, trasformisti e partitini personali

Una soglia bassissima, insufficiente a bonificare del tutto la palude dell’indistinto, ma sufficiente, quantomeno, a sottrarre spazio vitale a liste costruite attorno ad un solo candidato, a progetti inventati dal nulla per dare rappresentanza, e potere di ricatto, all’utilità marginale di singole consorterie. Nel 2020 un quinto degli eletti espressione di cespugli che non arrivarono a 60mila voti

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Perché De Luca possa, fra due anni e mezzo, tentare di conquistare il terzo mandato, sarà necessario, come noto, modificare la legge elettorale vigente, la n. 4 del 2009. E a quanto pare, in linea con quanto trapelato alla vigilia della pausa estiva, l’intenzione del governatore è quella di accelerare. La maggioranza appare assolutamente compatta nel sostenere la causa del Presidente, ma il punto è che i correttivi previsti, e sui quali si sta ragionando, sono molteplici.

Se per un verso si dà per scontato l’allargamento della platea consiliare, funzionale a riconoscere un eletto in più ad ogni provincia al netto di Napoli, per porre parzialmente rimedio all’egemonia partenopea sul piano della rappresentanza, il nodo più delicato della vicenda è relativo all’introduzione di una soglia di sbarramento al 2 per cento sul piano regionale per ogni forza politica. Parliamo, facendo riferimento alle ultime regionali, di circa 60mila voti.

Una soglia bassissima, insufficiente a bonificare del tutto la palude dell’indistinto, ma sufficiente, quantomeno, a sottrarre spazio vitale a liste costruite attorno ad un solo candidato, a progetti inventati dal nulla per dare rappresentanza, e potere di ricatto, all’utilità marginale di singole consorterie.

Giova ricordare che i consiglieri regionali vengono eletti con criterio proporzionale, sulla base delle liste circoscrizionali provinciali con applicazione di un premio di maggioranza legato al Presidente eletto, le cui liste ottengono almeno il 60% per cento dei seggi del Consiglio (fino a un massimo del 65%, senza contare il seggio del presidente eletto).

Alle ultime elezioni regionali, come si ricorderà, De Luca si presentò con il sostegno di una coalizione composta da 15 liste, di cui ben 6 raccolsero meno del 4 per cento dei consensi e tre si fermarono al di sotto del 2, eleggendo un consigliere a testa. Nel centrodestra sconfitto, invece, fu l’Udc ad eleggere un suo rappresentante fermandosi all’1,93 per cento. Tutte liste, al netto di pochissime eccezioni, costruite sostanzialmente su singole ambizioni, concepite per garantire l’elezione di un unico riferimento, particolarmente radicato nel proprio contesto territoriale. Liste che hanno espresso un quinto degli eletti complessivi.

L’introduzione della soglia di sbarramento al 2 per cento, dunque, rappresenterebbe un gran problema per chiunque volesse ambire alla conquista di un seggio in assise regionale facendo esclusivamente leva sul proprio consenso personale, attraverso liste riempite all’ultimo minuto e, talvolta, senza alcuna connotazione politica riconoscibile se non in ragione del simbolo. Dunque rappresenterebbe, capovolgendo la prospettiva, un elemento di igiene democratica, seppur non risolutivo, perché inibirebbe il proliferare di liste e listarelle costruite su singole ambizioni, sottrarrebbe spazio al trasformismo degli apolidi, ovvero ai partiti ad immagine e somiglianza di una sola persona. Detta altrimenti premierebbe le ragioni della politica mortificando quelle dell’opportunismo e del trasversalismo.

Proviamo a farci capire. Non c’è dubbio che Francesco Emilio Borrelli, oggi deputato della Repubblica ma fino a un anno fa consigliere regionale, sia depositario di un significativo consenso nella città di Napoli, costruito con intelligenza e perseveranza, puntando su battaglie di legalità condotte attraverso una sapiente e martellante strategia di comunicazione. Battaglie, intendiamoci, assolutamente condivisibili.

Tuttavia, nel 2020 Francesco Emilio Borrelli trovò la rielezione in assise regionale grazie all’1,82 per cento raccolto da Europa Verde. Un partito che, nessuno ce ne voglia, non esisteva allora e continua a non esistere, sia in termini di proposta politica, di capacità di incidere sull’agenda dei territori, se non in ragione delle sortite social dello stesso Borrelli. Il quale, in presenza di una soglia di sbarramento anche al 2 per cento, non avrebbe potuto riempire le liste ad un mese dalle elezioni ricercando, provincia per provincia, profili da arruolare, raccattando pezzi marginali di apparato alla ricerca di nuove collocazioni. Avrebbe dovuto necessariamente investire molto di più sulla crescita del partito, avrebbe dovuto percorrere la strada del radicamento, della presenza sui territori, la strada del pluralismo e dell’organizzazione. Borrelli non fu candidato in Europa Verde ma si candidò, senza chiedere il permesso a nessuno, in un partito che in Campania è esistito e continua ad esistere solo in funzione della sua persona.

E il medesimo discorso, evidentemente, andrebbe esteso a tutte le altre forze, per quanto riconoscibili in termini di simbolo e di storia, la cui ragion d’essere va ricercata nelle ambizioni di singole consorterie e di singoli riferimenti.

Ma se a Borrelli, e ad altri come lui, va riconosciuta almeno un’appartenenza, un profilo definito, oltre alla capacità di dettare l’agenda e di incidere sul dibattito pubblico almeno nel contesto territoriale di riferimento, non si può dire altrettanto per tutti. Prendiamo il caso del consigliere regionale Livio Petitto, che dopo venti anni di militanza nel Centrosinistra e nel Pd, dopo aver ricoperto ruoli di primissimo piano nella vicenda amministrativa della città di Avellino, fu escluso dalla lista dei democratici per le regionali per aver sostenuto apertamente prima il candidato del centrodestra alle provinciali e poi l’attuale sindaco del capoluogo, Gianluca Festa, alle amministrative del 2019.

Quando l’esclusione fu ufficializzata andò prima a bussare alla porta di Ciriaco De Mita, poi a quella di Renzi, ovvero di Rosato, infine riuscì a trovare spazio, grazie proprio al sindaco di Avellino, in una lista chiusa quasi fuori tempo massimo, frutto dell’accordo tra il Partito animalista e l’associazione Davvero, di cui Festa è uno dei riferimenti. E venne eletto grazie a circa 11mila preferenze personali, con il sostengo di una lista irpina composta esclusivamente da suoi fedelissimi, per un compagine che ottenne l’1,43 per cento.

Oggi Petitto è a capo del gruppo consiliare “Moderati e Progressisti”, più che un nome un ossimoro, nel quale si ritrova anche Stefano Caldoro. Ma è, soprattutto, dichiaratamente schierato contro il governatore De Luca, nel centrodestra, e sempre più vicino a Fratelli d’Italia.

Ecco, il caso di Petitto è emblematico. Si sarebbe potuto candidare con chiunque purché messo nelle condizioni di essere eletto. Si candidò per necessità con gli animalisti, a sostegno di De Luca, oggi capeggia una pattuglia organica al centrodestra, alle politiche ha sostenuto Gianfranco Rotondi, eletto per la Fiamma, per la quale punta a ricandidarsi nel 2026.

Si dirà che comunque ottenne oltre 11mila voti e che, dunque, la sua elezione andrebbe considerata molto più giusta e legittima, in punto democratico, di quella, per esempio, di un altro irpino. Il riferimento è a Vincenzo Ciampi, eletto per i Cinque Stelle con circa 1500 preferenze raccolte in Irpinia. Non è così. Perché Ciampi è stato eletto non in ragione dei voti personali ottenuti ma in ragione di ciò che rappresenta, è stato eletto per la logica di questo sistema elettorale, ovvero con i resti, ma è stato eletto per nome e per conto di una forza politica riconoscibile, presente in ogni provincia della Campania con le sue liste, con la sua classe dirigente. Dunque se Petitto rappresenta nulla più che se stesso, le proprie ambizioni e, tutt’al più, l’apparato di cui è riferimento, Ciampi rappresenta un partito, un’idea, giusta o sbagliata che sia, una forza collettiva. E questa è la politica, è la rappresentanza che la Costituzione riconosce.

Ecco, dunque, che la soglia di sbarramento al 2 per cento, per quanto bassa ed insufficiente ad inibire personalismi e trasformismo, porrebbe comunque un argine importante alla degenerazione dell’indistinto, al moltiplicarsi di candidature senza alcun ancoraggio politico, la costruzione di coalizioni più coerenti e omogenee, con perimetri quantomeno riconoscibili, e favorirebbe la capacità di rappresentanza delle forze politiche principali, delle liste più forti e radicate, ponendo un argine alla parcellizzazione.

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