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Opinioni

De Mita, Dorso e le terre dell’osso: l’erba cattiva ha scacciato quella buona

Se fino a qualche decennio fa l’esercizio della politica era ambizione esclusiva dei migliori, se la statura culturale di quanti s’impegnavano nell’agone pubblico era l’elemento che restituiva riconoscibilità ed orientava il giudizio dell’elettorato, oggi i migliori fuggono dall’impegno politico e restano solo i fedeli. La nostra condanna è tutta qui

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Dalle nostre parti, purtroppo, il treno del futuro non passa a prescindere. Questa fortuna è concessa alle terre della polpa, per richiamare Rossi Doria, ai grandi centri urbani che insistono sulle fasce costiere, alle aree metropolitane, ovvero a quei contesti dove i flussi economici si generano per inerzia, città e territori attrattivi per collocazione geografica, dunque per densità demografica. Nelle terre dell’osso, nelle nostre aree interne, la modernità è invece una dimensione da conquistare in ogni fase storica, il futuro è un diritto tutt’altro che scontato tanto più in ragione delle dinamiche che regolano il gioco democratico. La marginalità demografica, c’è poco da fare, determina marginalità sul piano della rappresentanza istituzionale. Siamo pochi, dunque contiamo poco.

La Storia ci dice che solo quando questi territori sono stati in grado di esprimere classi dirigenti sufficientemente autorevoli da imporre le istanze delle nostre comunità in cima all’agenda nazionale siamo riusciti ad abbattere il muro di questa marginalità. Solo quando abbiamo potuto contare su leadership capaci di esprimere pensieri lunghi e visione, ovvero su gruppi dirigenti capaci di fare la differenza nelle aule parlamentari piuttosto che ai massimi livelli istituzionali, ci siamo visti riconoscere il diritto al futuro. Il pensiero corre a Fiorentino Sullo, padre costituente che impose il passaggio dell’autostrada in Irpinia, piuttosto che alla lunga stagione della base demitiana, all’università del Sannio che divenne realtà grazie all’impegno profuso da molti, in primo luogo da Ortensio Zecchino.

A queste latitudini la politica ha sempre rappresentato la leva regina per ricercare il progresso, ecco perché le nostre genti hanno sempre riconosciuto nella partecipazione democratica la via per l’emancipazione, per la costruzione di avvenire, ecco perché nei nostri paesi, all’ombra dei nostri campanili, cultura e conoscenza hanno sempre rappresentato il viatico per emergere. Ed è la stessa ragione per la quale, da sempre, la grande ricchezza delle nostre aree interne è il capitale umano, la capacità di produrre cervelli. Valeva ieri e vale ancora oggi.

Ma se fino a qualche decennio fa l’esercizio della politica era ambizione esclusiva dei migliori, se la statura culturale di quanti s’impegnavano nell’agone pubblico era l’elemento che restituiva riconoscibilità ed orientava il giudizio dell’elettorato, oggi i migliori fuggono dall’impegno politico. Il punto di rottura va ricercato nella crisi dei partiti, nell’incapacità delle forze politiche di formare e selezionare classi dirigenti, di misurarsi su pensieri forti, visioni di futuro, dunque nel processo di progressiva privatizzazione del meccanismo democratico che a tutti livelli premia la mediocrità. Vale per il Parlamento, i cui membri vengono selezionati a monte dai capi partito in funzione di sistemi elettorali che sottraggono al popolo il diritto di scegliere i propri rappresentanti, vale per i livelli inferiori, Regioni e Comuni, presidiati da apparati espressione di sistemi di potere costruiti con il cemento della clientela e del trasformismo. I migliori hanno lasciato spazio ai fedeli. L’erba cattiva ha scacciato quella buona.

De Mita, il grande De Mita, amava ripetere che il pensiero è l’agire più concreto per significare che la politica si alimenta di pensieri e parole, perché sono le parole che danno forma al mondo ed è questo ciò che la politica è chiamata a fare. Dovremmo ripartire da questo insegnamento, dai luoghi, dalle piazze, per ricostruire la trama smarrita che tiene insieme storia e futuro, dovremmo ripartire da questa lezione per restituire valore alla parola, al dialogo tra generazioni e pensieri, per tornare ad annaffiare l’erba buona. Dorso evocava cento uomini di ferro. Per ricominciare ne basterebbero molti di meno.

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