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Tertium non datur

La prospettiva terzopolista ha smarrito ogni senso nello stesso momento in cui Giorgia Meloni ha giurato al Quirinale. Quella tra Renzi e Calenda è stata una inconfessabile separazione consensuale, dettata più dalle ragioni della politica che dalle diffidenze. Venendo alla Campania, invece, l’implosione del terzo polo ha per un verso ricadute paradossali, per altro ci dice molto del futuro di De Luca e del suo rapporto con il Pd

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L’implosione del Terzo polo, che terzo non è mai stato, ha ragioni persino ovvie. L’azione e la retorica di questa destra di governo hanno determinato una prevedibile radicalizzazione dello scontro politico, hanno spostato la battaglia sul piano ideale, sulle grandi questioni che definiscono una visione di società, di futuro, di modernità.

Una radicalizzazione che non concede più spazio ad ipotesi terzopoliste, che pretende una scelta di campo netta, perché, come certificato dalla vittoria di Elly Schlein alle primarie democratiche dello scorso 26 febbraio, o si sta con questo governo e con questa destra o si sta contro. Non esiste alternativa possibile a questo bipolarismo perché, semplicemente, la logica bipolare è la sola nella quale la pubblica opinione si riconosce, è la sola logica che restituisce una lettura del confronto democratico coerente con questa fase storica.

Scommettere, come nei piani iniziali, sul partito unico per puntare alle elezioni europee sarebbe stato molto più che un azzardo. Un suicidio. Perché nessuno schema proporzionale potrebbe favorire la disarticolazione di questo bipolarismo. Nemmeno fra un anno, tanto più in considerazione del fatto che le elezioni europee si terranno, con ogni probabilità, in concomitanza con elezioni regionali, amministrative e forse persino provinciali. Elezioni che si giocano in ossequio allo schema bipolare e che, dunque, andranno ad influenzare inevitabilmente anche la contesa per il Parlamento europeo.

Insomma, la prospettiva delineata all’indomani delle politiche da Renzi e Calenda ha smarrito ogni senso nello stesso momento in cui Giorgia Meloni ha giurato al Quirinale. Indipendentemente dalle ricostruzioni di questi giorni, dalle polemiche e dai veleni, quella a cui abbiamo assistito è stata una inconfessabile separazione consensuale, dettata più dalle ragioni della politica che dalle diffidenze, dall’incompatibilità caratteriale tra i due leader ovvero da ragioni di natura economica. Inconfessabile, dunque declinata in sceneggiata.

Questa legislatura, d’altro canto, dovrebbe durare ancora quattro anni e mezzo. Renzi, che sa di non ricercare alcuna prospettiva se non nel Palazzo, contesto nel quale è certamente un fuoriclasse, recupera in tal modo autonomia di movimento tra i banchi del Senato, libertà assoluta sul piano delle interlocuzioni, dunque le condizioni ideali per portare avanti con risolutezza la battaglia garantista con l’obiettivo di costruire, sulle macerie di Forza Italia, una nuova prospettiva moderata organica a questa destra, funzionale allo schema bipolare.

Analogamente, Calenda potrà tornare a giocare liberamente sul fronte dell’opinione, libero dalla zavorra renziana, provando a sfondare a destra, ovvero ad attrarre i tanti liberali che in Forza Italia già da settimane hanno cominciato a prendere le distanze dal governo e dalle parole d’ordine degli alleati, e che, evidentemente, oggi non hanno alternativa ad immaginare un futuro senza la guida di Silvio Berlusconi, a cui auguriamo tutto il bene di questo mondo ma la cui esperienza politica appare irrimediabilmente conclusa. Sarà fondamentale, in questa prospettiva, la tenuta del patto con gli ex forzisti già approdati tra le schiere azioniste, a partire da riferimenti storici di Forza Italia quali Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini. Lì si può allargare, innanzitutto in chiave antisovranista, scommettendo sul tempo, ovvero sulla durata della legislatura, e sulla crescita del Pd a spese del Movimento Cinque Stelle. L’ambizione è quella di capovolgere i rapporti di forza, di imporsi sul lungo periodo, nel campo alternativo alla destra, come il principale interlocutore del Nazareno.

Venendo alle cose di casa nostra, ovvero alla Campania, l’implosione del terzo polo rappresenta un fatto politico di grande rilevanza, non solo e non tanto per le ricadute immediate sugli assetti e gli equilibri di forza interni al fronte del governatore ma soprattutto sulle prospettive di De Luca in chiave terzo mandato.

Nella nostra regione, sulla carta, alle scorse politiche il terzo polo avrebbe dovuto ottenere percentuali molto più alte di quelle registrate. In Assise regionale, infatti, Italia Viva e Azione esprimono una folta pattuglia di potenti consiglieri, la seconda per forza di rappresentanza. E se il partito di Renzi gode anche di molti amministratori, in primo luogo sindaci, Azione, al netto dei gruppi dirigenti territoriali, è il partito di Mara Carfagna, di Paolo Russo, di molti autorevoli riferimenti di quello che fu il gruppo dirigente di Forza Italia sui territori.

Il punto è che Italia Viva, in Campania, è un partito ad immagine e somiglianza del governatore De Luca, che ormai tre anni fa utilizzò la scialuppa renziana per piazzare i propri candidati in esubero, e lo stesso si può dire, in buona sostanza, per Azione, almeno per quel che riguarda la rappresentanza regionale e buona parte dei gruppi dirigenti molto spesso riconducibili al fronte del Presidente della Regione. Questa condizione ha fatto sì che la grande parte dei principali riferimenti di Italia Viva e Azione in Campania, alle scorse elezioni politiche, non ha votato per i candidati del terzo polo. Molti hanno sostenuto i candidati del Pd, proprio per dare forza al governatore, altri, come accaduto per esempio in Irpinia, hanno votato per i candidati della destra proprio per lanciare segnali chiari a Palazzo Santa Lucia, per rivendicare, nelle urne, maggiori spazi di gestione. Il deluchismo è anche questo.

Volendo semplificare potremmo affermare, senza tema di smentita, che in Campania l’unico leader riconosciuto tra i riferimenti di Italia viva e di Azione è proprio il governatore. Con buona pace di Renzi, con buona pace di Carlo Calenda e di Mara Carfagna. Ed è del tutto evidente che, nell’immediato, l’implosione del terzo polo restituisce a De Luca ulteriore potere sui consiglieri che in assise rappresentano Iv e Azione, dunque sugli apparati di cui sono terminali. Perché il venir meno di una prospettiva riconoscibile e vincolante, il venir meno del partito unico, alimenta le ragioni della fedeltà di quei consiglieri a De Luca perché sottrae quei consiglieri e quegli apparati dal gioco dei veti romani.

Contestualmente, ed è questo dal nostro punto di vista il dato politico più rilevante, le ragioni per le quali il terzo polo è morto prima di nascere sono le stesse che non concedono a De Luca spazio alcuno per rincorrere un terzo mandato a prescindere dal Pd. La radicalizzazione dello scontro politico durerà ancora molto a lungo e quando fra due anni e mezzo, mese più mese meno, si terranno le elezioni regionali in Campania, il contesto politico difficilmente concederà spazio ad ipotesi civiche, proprio perché da una parte ci sarà una destra forte e agguerrita, una coalizione molto più ampia e forte rispetto al centrodestra che nel 2020 sostenne Caldoro, dall’altra un centrosinistra largo, trainato dall’asse Pd – Cinque Stelle. Molto difficilmente ci sarà spazio per il trasversalismo, per l’indistinto, dunque per un terzo polo in salsa campana nel nome dello sceriffo.

De Luca, se tanto ci dà tanto, non potrà fare a meno del Pd per realizzare le sue ambizioni. Fra due anni e mezzo non sarà necessariamente vero il contrario. Tertium non datur. Né in Italia né in Campania.

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