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La Svizzera dice no agli Italiani. Dietro al referendum un parlamentare figlio di immigrati originari di Apollosa

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La Svizzera sempre più lontana: non in senso geografico, si intende, ma in senso sociale ed economico. Meta di tantissimi italiani tra gli anni ’50 e 60, epoca di fortissima emigrazione dall’Italia verso i paesi europei, e non solo, per trovare “fortuna”, per costruire una vita che in Italia diventava sempre più difficile a causa della crisi post-bellica. Oggi figli di quegli stessi immigrati hanno sostenuto il referendum dei giorni scorsi che ha portato alla riduzione delle quote di immigrati e che chiude le porte ai cosiddetti “frontalieri”.
Secondo quanto pubblicato oggi dal Corriere del Mezzogiorno, uno dei sostenitori del referendum è figlio di immigrati beneventani, accusato oggi di razzismo e xenofobia. Si chiama Sergio Savoia, figlio di Nino e Gina, originari di Apollosa, che tra il ’58 e il ’63 si trasferirono nel Canton Ticino dove misero su famiglia e trovarono lavoro, lui come manovale e lei come operaia e cuoca.
Storia di ordinaria emigrazione che oggi balza alle cronache nazionali per la rilevanza che Savoia figlio, 49 anni, ha dato alla negazione della libera circolazione delle persone nell’Unione Europea. “Quelli che vengono dall’Italia si accontentano di stipendi più bassi e ci tolgono posti di lavoro”: E’ con questa affermazione, che Sergio Savoia, che ogni estate torna ad Apollosa, ha ottenuto consensi in campagna elettorale. Ma il paradosso è che è riuscito a convincere i suoi genitori a votare per il no ai “frontalieri”. Il referendum ha ottenuto il 68,17% dei voti da parte dei residenti del Canton Ticino.
“Reazioni isteriche”, dice Savoia al Corriere del Mezzogiorno per difendersi dall’accusa di razzismo, spiegando che “la mia decisione di far votare sì al referendum si basa sull’analisi della situazione del Canton Ticino. Qui ci sono circa 340.000 abitanti, e un terzo dei posti di lavoro oggi è occupato dai frontalieri, da quelli cioè che vengono qui la mattina e la sera tornano in Italia. E che, per questo, possono permettersi di lavorare con salari decisamente più bassi dei nostri”. “Perché – riferisce ancora al Corriere del Mezzogiorno – voi parlate di razzismo, ma lo sapete che chi perde il posto di lavoro sono proprio gli immigrati di una volta? Sono i primi ad essere sostituiti, è già accaduto nei settori dell’industria e delle costruzioni. I frontalieri hanno fatto mandare a casa tantissimi lavoratori che erano venuti qui dal Sud Italia”.
Secondo la rivista on line “Storicamente” “dopo una prima fase più liberale nella gestione dei flussi migratori, a partire dai primi anni ’60 le politiche svizzere in materia cambiarono significativamente e insieme al riconoscimento della non temporaneità della presenza italiana nel Paese, si cominciò a controllare i flussi di manodopera in entrata, anche sulla spinta di un crescente sentimento xenofobo della popolazione locale, preoccupata da un supposto rischio di “überfremdung” o “inforestierimento”.
La spinta ad andare in Svizzera, infatti, fu motivata soprattutto dalla ricerca di un lavoro che avrebbe dovuto determinare una permanenza provvisoria che, in realtà, poi è divenuta definitiva. E lo dimostra la storia della famiglia Savoia che proprio nel Canton Ticino è nata dopo che il papà Nino, partito nel ’58 per fare il manovale in un cantiere che costruiva dighe, fu raggiunta dopo cinque anni dalla moglie Gina, che trovò lavoro come operaia e cuoca. Insieme nel ’64 misero su famiglia facendo nascere proprio Sergio.