POLITICA
Giorgia, Elly, Vicienz e Clemente: che anno, ragazzi!
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Il 2025, in punto politico, è stato un anno pesante. Per il Paese, per la Campania, per le nostre aree interne. Sul piano generale è stato l’anno nel quale si è rotto l’incantesimo. Sotto il peso della complessità la destra di governo è implosa. Il clima nel Paese è cambiato ben oltre quel che i sondaggi suggeriscono e non a caso, mentre in Campania ancora si contavano la riforma della legge elettorale si è improvvisamente trasformata in una priorità irrinunciabile per la maggioranza ed il governo. Il punto sostanziale sta nell’evidenza di un fallimento, senza appello, drammatico e grottesco, di cui questa legge finanziaria è sublimazione.
Il vero punto di rottura è da ricercare nella distanza siderale tra la retorica di questo governo e la realtà che gli italiani vivono ogni giorno: aumenta l’occupazione esclusivamente per le fasce di popolazione più alte, perché non si finisce più di lavorare, ma aumenta drammaticamente la povertà. Milioni di italiani rinunciano alle cure per motivi di natura economica, i nostri salari continuano ad essere i più bassi d’Europa mentre la pressione fiscale è aumentata come non mai nel corso dell’ultimo decennio. E non perché è aumentata l’occupazione, come sostenuto in mondo visione dalla premier migliore d’Europa (cit).
Cresce esponenzialmente il numero di italiani che decide di lasciare il Paese e persino sulla sicurezza e sul contrasto all’immigrazione si rilevano numeri impietosi. In politica estera l’equilibrismo della premier ha pagato nell’immediato, sul piano della propaganda, ma tirando le somme i dazi di Trump gravano sulle nostre imprese mentre sul piano europeo siamo totalmente isolati.
Si dirà che Fratelli d’Italia è saldamente prima forza nel Paese, vero. E poco conta se da un paio di mesi almeno perde punti. Il punto vero è che la fiducia nel governo e in Giorgia Meloni è in picchiata, Forza Italia è in piena crisi d’identità ed è alla ricerca di una nuova primavera liberale, prospettiva del tutto incompatibile con l’attuale linea politica, la Lega è prigioniera delle sue contraddizioni, guidata da un leader ormai logoro, ridotto a macchietta, che potrà recuperare una prospettiva solo ripartendo dalle sue roccaforti, riscoprendo la sua vocazione identitaria.
Non è certo casuale se il clima nel Paese è cambiato nel corso degli ultimi mesi, ovvero nello stesso momento in cui è emerso il primo accenno di alternativa. E qui arriviamo all’altro cambiamento intervenuto sul piano politico generale. Negli ultimi due anni le uniche regioni che hanno scelto il cambiamento sono state la Sardegna e l’Umbria, entrambe passate dal centrodestra al centrosinistra. Che ha vinto nella grandissima maggioranza dei capoluoghi e delle città metropolitane. Il campo progressista oggi è molto più di una ipotesi, esiste uno schema di coalizione riconoscibile, per quanto in evoluzione, costituito da forze politiche che in Parlamento e nelle Piazze hanno trovato convergenza su molti temi strategici e qualificanti.
Il 2025 è stato, da questo punto di vista, l’anno in cui Elly Schlein ha vinto la sua scommessa. Vinse le primarie nei gazebo con il Pd al 14 per cento, isolato, prossimo ad una inevitabile estinzione. Alle ultime europee il partito ha raccolto il 24 per cento, oggi guida, in asse con il Movimento Cinque Stelle, un centrosinistra largo, coeso, in grado di contendere il governo dei territori e del Paese alla destra. Un centrosinistra che oggi, con questa legge elettorale, quantomeno pareggerebbe. Un centrosinistra, e finiamo, che allargato al centro, avrebbe molte possibilità di vincere, ad oggi, le elezioni politiche.
In tale quadro, va collocata la vicenda campana. Qui Elly Schlein ha compiuto un vero capolavoro. Il centrosinistra si è confermato al governo della Regione, presentandosi unito in ogni componente attorno alla candidatura di Roberto Fico, ex Presidente della Camera, espressione del Movimento Cinque Stelle. Fico ha stravinto, contro un centrodestra debole, incapace di proporre anche solo una ipotesi di alternativa, e con Fico ha vinto il Movimento Cinque Stelle, ha vinto il Nazareno, ha vinto il Pd dei territori e dei consiglieri regionali, ha vinto Gaetano Manfredi e ha perso, inevitabilmente, Vincenzo De Luca. Che tuttavia è vivo, lotta insieme a noi e continuerà ad esercitare un ruolo centrale nelle dinamiche politiche ed istituzionali regionali, oltre che nel dibattito pubblico del Paese.
Ha perso, De Luca, non solo perché ha dovuto rinunciare al terzo mandato, ma perché è stato costretto a far sua la linea del Nazareno, ad assecondare, dunque ad alimentare, una trasformazione strutturale della grammatica politica regionale. Il deluchismo è finito nel momento in cui i partiti si sono riappropriati del proprio ruolo, prosciugando la palude dell’indistinto. Nel momento in cui la politica ha riaffermato il proprio primato sul civismo d’accatto, nel momento in cui la rappresentanza ha riscoperto la dimensione collettiva dell’appartenenza. De Luca era un uomo solo al comando, a capo di una giunta di cui forse ricordiamo un paio di nomi, i suoi consiglieri erano in realtà degli assessori, ambasciatori sui territori per nome e per conto del sultano. Roberto Fico è il presidente di una coalizione politica, un primus inter pares chiamato a gestire la complessità di una leadership plurale. Un altro mondo, molto più complesso. La politica. In bocca al lupo.
Lungo quest’orizzonte volge anche lo sguardo delle nostre aree interne. Il 2025 è stato l’anno in cui il governo italiano ha gettato la spugna, mettendo nero su bianco che i territori marginali sono ormai condannati ad un declino irreversibile verso il quale vanno accompagnati. È stato anche l’anno in cui 1200 comuni, in grandissima parte appenninici, sono stati esclusi dalla classificazione di comuni montani perché Calderoli così ha deciso. È stato anche l’anno delle elezioni regionali, settimane nel corso delle quali di aree interne hanno parlato tutti, legittimando drammaticamente la tesi del governo. Regionali che hanno ridisegnato la geografia politica ed istituzionale dei territori. In Irpinia il centrosinistra si conferma largamente egemone grazie soprattutto ad un Pd in crescita, unito attorno alla leadership di Maurizio Petracca, che appare nelle condizioni di riconquistare finalmente il capoluogo, dopo oltre dieci anni, e di riallineare tutta la filiera istituzionale sui territori.
Nel Sannio, invece, ha vinto ancora una volta Clemente Mastella. Noi di Centro non solo si conferma prima forza a livello provinciale eleggendo Pellegrino Mastella in assise regionale, ma conferma radicamento in tutta la Campania. Il sindaco di Benevento ha compiuto l’ennesimo capolavoro, ha dimostrato di essere ancora determinante sui territori, utile sul piano della prospettiva generale, ed oggi guarda alle politiche rivendicando un ruolo da protagonista nel percorso di costruzione della quarta gamba del centrosinistra. Il punto è che le regionali, anche nel Sannio, hanno chiuso una fase e ne hanno aperta una nuova. La pretesa dei vertici provinciali del Pd di continuare a leggere questo presente con le lenti di un passato che non tornerà non sta in piedi. Se il campo progressista è la sola prospettiva possibile nel Paese e in Campania lo deve essere anche nel Sannio. Dove, piaccia o meno, non esiste campo progressista senza Mastella. Mentre può e deve esistere un Pd rinnovato, in grado di parlare il linguaggio della politica e non quello del rancore.




