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Salute

Zona arancione, restrizioni ed economia: e se la battaglia al covid fosse su base provinciale?

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Le varianti del covid, le nuove chiusure e la paura per economia e posti in ospedale. Dallo scorso 21 febbraio la Campania è tornata in ‘zona arancione’ con la conseguente chiusura di attività commerciali e nuove restrizioni. L’analisi complessiva, però, lascia qualche perplessità per quanto riguarda il Sannio e molte altre province italiane. In premessa è importante sottolineare che non bisogna ridimensionare l’impatto dell’epidemia o sottovalutare le problematiche per la salute.

Per capire meglio la questione, sono utili dei dati elaborati da InfoData de “Il Sole 24 Ore” che  ha utilizzato i numeri relativi ai nuovi casi, normalizzati ogni 100mila residenti: si tratta dell’unica analisi disponibile a livello provinciale. Secondo i numeri in provincia di Benevento ci sono 65,7 casi ogni 100mila residenti (la zona bianca dovrebbe scattare con una media giornaliera inferiore ai 50 casi). Segue Avellino con 94,9 casi, poi Caserta che ha fatto registrare 110,3 casi nell’ultima settimana, a ruota c’è Napoli con 163 casi negli ultimi sette giorni ed, infine, Salerno con 186,4 contagi ogni 100mila cittadini. A questi numeri si aggiungono anche quelli di Gimbe che dicono che a Benevento, dal 16 al 23 febbraio scorso, c’è stata una diminuzione percentuale dei nuovi casi del 28,8%, anche se la nuova settimana potrebbe portare un leggero aumento.

Dopo un anno di battaglia al covid le analisi statistiche possono essere decisive in termini di decisioni da prendere in merito a chiusure e restrizioni. L’esempio più recente è della Lombardia e dell’Emilia Romagna che hanno posizionato diversi comuni in zona arancione rafforzata per combattere la diffusione virale. Ripensare il sistema di ‘colori’ dalla scala regionale a quella provinciale potrebbe essere un passo importante per le diverse comunità. E’ chiaro che distanziamento e precauzioni non possono essere abbandonate, ma un lockdown sulle province potrebbe essere un primo tentativo di affrontare il problema sui singoli territori.

Un discorso che avrebbe anche un valore economico, consentendo ai ristoratori in particolare, ma ad una vasta platea di codici ‘Ateco’, di continuare a lavorare se i numeri lo permettono. Accanto a questo sarebbe una boccata d’ossigeno per quei cittadini che rispettano le norme e che non meritano di subire chiusure per un dato aggregato nel quale pesano in maniera minore. Stesso discorso anche per le aperture e chiusure delle scuole. Una idea che, secondo quanto riportato a livello nazionale, potrebbe rientrare nell’agenda del Governo Draghi che in queste ore è impegnato nella Conferenza Stato-Regioni.

Resta, però, il nodo controlli. Come dicevamo, scendere a livello provinciale garantirebbe una differenziazione tra i territori, ma esigerebbe anche controlli capillari. Il problema che si pone è rilevante: controllare gli ingressi tra le province è particolarmente complesso alla luce anche delle mancanze di organico delle forze dell’ordine. Sempre in quest’ottica, è sempre più complesso controllare anche assembramenti e le scene di piazza Risorgimento dello scorso week end ne sono la testimonianza.

In conclusione, scendere al livello provinciale potrebbe portare molti benefici anche a sul piano statistico, portando lo studio e le comunicazioni sul contagio ad un dettaglio maggiore. A questo, però, andrebbero associati un rigore sempre maggiore dei cittadini e la capacità delle Regioni di intervenire in maniera diretta sui singoli territori.

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