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“La violenza che parla di un vuoto”: la riflessione di don Crescenzo Rotondi sul pestaggio di Montesarchio

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Una lite nata, forse, da poco o nulla. Uno sguardo, una parola fuori posto. E poi il sangue, le urla, la corsa in ospedale. Gaetano, 17 anni, è in fin di vita. Un altro ragazzo, di appena 18 anni, è sotto osservazione. A ridurli così, un gruppo di coetanei, armati di spranghe e mazze da baseball, fuori da una discoteca di Montesarchio in quella che doveva essere solo una sera qualunque. Un episodio di violenza insensata che scuote l’intera Valle Caudina, e che chiede risposte ben oltre la cronaca. Risposte che, con lucidità e fermezza, prova a dare don Crescenzo Rotondi, parroco di Apice, docente e pedagogista, da anni voce attenta ai temi dell’educazione giovanile.
“La vera forza non sta nel colpire, ma nel tendere la mano” scrive il sacerdote nella sua riflessione, un accorato appello alla responsabilità collettiva di fronte a un’emergenza educativa che – spiega – non può più essere ignorata.
Dietro ogni pugno, dietro ogni atto di sopraffazione, c’è un vuoto. Un’assenza. Una mancanza di parole. Di adulti presenti. Di spazi dove i ragazzi possano riconoscersi e crescere. “Viviamo in un tempo in cui i modelli di riferimento sono fragili e incerti. Il bisogno di sentirsi accettati si confonde spesso con l’idea che solo chi è temuto è rispettato”, scrive il sacerdote, individuando il punto cieco di una società che troppo spesso delega e si assenta.
La violenza, ammonisce don Crescenzo, è diventata per molti adolescenti un linguaggio. Serve per imporsi, per farsi notare, per colmare quel silenzio in cui non riescono più a comunicare davvero. Ma in realtà, è solo un grido disperato: “Chi colpisce, spesso, è chi non ha imparato a esprimere con le parole ciò che prova”.
Ed è qui che, per il parroco-pedagogista, si gioca la vera sfida educativa. Serve una “pedagogia della presenza”: scuole che educhino alle emozioni, famiglie che dialoghino davvero, adulti capaci di porre limiti e offrire ascolto, società che valorizzino la gentilezza più della forza.
L’aggressione di Montesarchio, avverte, non può restare solo una notizia da dimenticare in fretta. Deve diventare una lezione di civiltà. Un momento di riflessione collettiva. Una presa di coscienza: che educare non è un compito delegabile, ma una missione condivisa.
“Ogni giovane che colpisce un altro è, in fondo, un giovane che non è stato ascoltato abbastanza. E ogni adulto che tace o minimizza contribuisce, anche senza volerlo, a costruire un mondo in cui la violenza diventa normale”.
Nel dramma di Gaetano e del suo amico, il sacerdote ci chiede di vedere qualcosa di più: un appello silenzioso, ma potente, a ricostruire il tessuto emotivo ed educativo di una generazione in crisi. Perché la pace, ci ricorda, non è solo assenza di violenza: è presenza di relazioni vere.
La lezione di don Crescenzo Rotondi ci ricorda che la battaglia contro la violenza giovanile non si vince solo con la repressione, ma prima di tutto con la prevenzione. E con un’educazione che torni a mettere al centro il cuore e la parola.