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ECONOMIA

Da internet al poker online, le tante visioni di Fabrizio D’Aloia: “Ora coltivo le mie passioni e voglio fare qualcosa per Benevento”

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Bisogna saper scegliere il tempo, non arrivarci per contrarietà”. Lo cantava Francesco Guccini nei suoi concerti, tra la fine dei Settanta e l’inizio del decennio successivo. Più o meno negli stessi anni, e precisamente nel 1982, arrivava sul mercato il ‘Commodore 64’, evento che in tanti oggi inquadrano come l’inizio dell’informatica di massa. Inizio per la verità timido, soprattutto in un’Italia che – messasi alle spalle la stagione del piombo e delle stragi – si godeva il presente, ancor di più per la pazza gioia del ‘Mundial’: il momento per pensare al futuro sarebbe arrivato. Eppure, a Benevento, un giovane neodiplomato e futuro ingegnere elettronico ad indirizzo calcolatori il futuro non solo già lo immaginava ma lo praticava. “Occorreva essere un po’ visionari. E noi sì, lo siamo stati, cavalcandola tutta la cosiddetta rivoluzione digitale, dagli anni Ottanta fino ad arrivare ai giorni nostri”. Una cavalcata tutta d’un fiato quella che ha visto protagonista Fabrizio  D’Aloia. “Sono stato un imprenditore seriale, fondando una serie di aziende che poi a catena ho rivenduto per crearne altre. Ho cominciato negli anni Ottanta, con una software house che si occupava di grafica quando i personal computer avevano ancora i monitor a fosfori verdi. L’ho poi ceduta per fondare una internet company in un tempo in cui la parola internet era sconosciuta anche a Windows ed a Telecom, che all’epoca si chiamava ancora Sip: e noi creammo il più grande network d’accesso a internet del Sud Italia, People’s Network. Venduta, verso la fine degli anni Novanta – quando era in corso la liberalizzazione della rete di telefonia – a una società di telecomunicazioni regionale, è arrivata Microgame: l’intento era quello di esplorare e – di fatto – creare il mondo del gaming online per soldi veri in Italia. Ci siamo riusciti”.

Con Microgame partivate dal nulla e siete riusciti a imporvi come leader nel settore: prevedevate un successo così importante?
“Avevamo le idee chiare su cosa fare e la capacità tecnologica per farlo, occupando gli spazi di mercato che desideravamo occupare e creandone di nuovi. Agli altri non è restato altro da fare che inseguire. E penso anche a società che all’epoca erano considerate leader del gioco tradizionale come Snai, Sisal o Lottomatica. Sono state prese in contropiede e i primi nel settore siamo diventati noi. E loro a rincorrere. E così è stato fino al 2013, quando ho ceduto l’azienda a due fondi di private equity americani”.

Ceduta Microgame cosa ha fatto?
“Ho trascorso un periodo sabbatico, quasi obbligatorio a seguito della mia fuoriuscita dall’azienda. Ne ho approfittato per rigenerarmi da tanti anni duri di attività imprenditoriale. Ho anche effettuato un giro del Mondo in barca a vela. E al mio ritorno le prospettive personali erano cambiate. Ho cominciato a dedicarmi alle mie passioni”.

Ha smesso i panni dell’imprenditore seriale?
“E sì, ogni cosa ha la sua età. Ho iniziato a dedicarmi ai giovani, alle start-up digitali. Sentivo il bisogno di fare qualcosa per i ragazzi interessati a esplorare la realtà del digitale, in continua evoluzione, e a fare impresa. Ho messo loro a disposizione la mia esperienza e dato quelle opportunità che io non avevo avuto, sia in termini di mentorship che di supporto. E per supporto intendo consulenza strategica, risorse economiche e relazioni. E l’ho fatto a Londra, diventata la mia città di adozione, dove sono partner di un acceleratore di start-up digitali innovative. E questo, in particolare, con un fondo di private equity, Eterna Capital, che è specializzato nell’investite in start-up innovative nel mondo blockchain e delle criptovalute di cui, per passione, sono diventato uno dei maggiori esperti”.

Un altro settore su cui è arrivato un po’ prima degli altri
“Questo perché già all’epoca del gaming, ma anche prima con l’internet company, il tema dei pagamenti per i servizi online era presente sul mio tavolo. E infatti siamo stati i primi a inventare la carta prepagata, poi adottata in maniera massiccia dagli operatori delle telecomunicazioni e successivamente da quelli della telefonia. Prima ancora di cedere Microgame, inoltre, avevo già acquisito un istituto di moneta elettronica, Mobilmat, di cui sono stato presidente per diversi anni. E nel mio periodo sabbatico ne ho approfittato per approfondire la tencologia blockchain, perfetta per creare moneta elettronica ed effettuare pagamenti”.

Nei suoi interventi ritorna spesso il ‘ritardo’ dell’Italia nello stare al passo delle trasformazioni e delle innovazioni: perché facciamo così fatica?
“La questione è semplice: in Italia siamo sempre secondi in ogni innovazione perché siamo un luogo in cui è possibile fare tutto quello che è consentito dalla legge. La contraddizione è evidente: l’innovazione, per sua stessa definizione, è un qualcosa di nuovo che la norma non può aver già recepito. In pratica in Italia è vietato per legge fare innovazione. E considerato che le novità creano sempre fastidio in qualcuno, non appena inizi trovi subito chi ti ostacola con cinquantamila appigli. E’ avvenuto per il gaming on line sulla mia pelle, per la blockchain ma anche per le cellule staminali, per fare qualche esempio. E oggi sta accadendo per l’Intelligenza Artificiale. In Inghilterra, invece, è consentito fare tutto ciò che non è vietato fare dalla legge. La nuova tecnologia viene quindi subito sviluppata liberamente e soltanto se crea evidenti problemi avviene l’intervento del regolatore, che ti dà un tempo per adeguarti. Ecco perché i Paesi anglosassoni saranno sempre davanti a noi. E infatti molte delle start-up con cui ci confrontiamo noi hanno una matrice italiana: ragazzi costretti a emigrare per fare innovazione”.

Nel suo caso, però, cervello all’estero ma radici ben piantate nella sua Benevento
“Ho la doppia cittadinanza, italiana e inglese ma le mie radici restano sempre beneventane. E’ un legame che non si rompe, quello con la mia terra. Terra dal grande potenziale inespresso. E infatti assieme ad altri amici beneventani, anche loro oggi lontani dalla Città, abbiamo fondato un’associazione che si chiama  Di.Co, Digital & Contemporary Art. Dopo aver fatto tanto altrove, vogliamo fare qualcosa per Benevento”.

Iniziativa presentata proprio in queste ore e che riguarda un’altra delle sue grandi passioni: l’arte
“Una passione di gioventù, che mi accompagna da sempre. L’amore per l’arte contemporanea mi ha portato a essere uno dei fondatori di ‘ArtSquare’, una piattaforma innovativa per democratizzare l’arte. E’ una sorta di borsa che quota le opere d’arte e ognuno può investirci, acquistando o vendendo azioni, a partire da un euro. Da ‘Artsquare’ è nato un network di relazioni nel mondo dell’arte contemporanea, anche digitale, che hanno portato – con Ninni De Santis e con il coinvolgimento di Francesco Cascino – alla nascita di Di.Co.”.

L’obiettivo?
“Un obiettivo molto semplice, per quanto complesso nella sua attuazione: creare nuova economia, nuovo Pil, attrarre flussi turistici con altissima capacità di spesa utilizzando l’arte contemporanea pubblica. Benevento è il luogo ideale per innestare arte contemporanea pubblica in un contesto pieno di arte tradizionale, quella lasciataci in eredità da più di duemila anni di stratificazioni storiche. L’arte contemporanea rappresenta l’elemento di congiunzione con il passato, per portare in dote al futuro un patrimonio ancora più ricco. E non può esaurirsi nell’Hortus Conclusus. Benevento deve strutturarsi per ospitare non solo arte ma anche performance condivise con la comunità locale”.

Un po’ l’idea che era alla base del progetto per piazza Duomo, per l’edificio oggi da tanti ribattezzato – ingenerosamente – come ‘il mamozio’
“Sì, era stato pensato proprio per essere un museo di arte contemporanea. Evidentemente già all’epoca si avvertiva questo bisogno di dotare Benevento di ulteriore arte, attuale e capace di proiettare la Città nel futuro. Vicissitudini e disinformazione hanno poi generato un disinteresse per la struttura. Ma ‘il mamozio’ è un elemento fondante del nostro progetto, lo vediamo come un punto di partenza dove lasciar esprimere artisti locali e attrarre correnti artistiche contemporanee. E’ già parte del nostro programma la valorizzazione dell’edificio. Ma il programma è vasto e comprende anche la creazione di ulteriori spazi museali e il coinvolgimento attivo della comunità locale che deve sentire suoi questi interventi affinché possa tutelarli e proteggerli. Noi, dunque, ci poniamo come elemento di dialogo tra la comunità e l’amministrazione: occorre un lavoro di squadra per rendere i progetti sostenibili nel tempo e capaci di creare valore. In altri contesti è accaduto, penso a Lipsia o Bilbao o la stessa Matera. Benevento ha caratteristiche addirittura superiori, può quindi farcela”.

Per restare alle proposte di Di.Co, nei giorni scorsi abbiamo parlato del Presepe di Dalisi
“Sarà il nostro primo intervento. L’amministrazione ci ha assegnato questa opera, la ristruttureremo – oggi versa in condizioni pietose – e la ricollocheremo in un luogo che definiremo insieme al Comune. L’idea è valorizzare un nuovo spazio di Benevento grazie alla sua installazione”.

Il suo nome è spesso rimbalzato sulle scrivanie dei cronisti politici per qualche candidatura, magari proprio a sindaco della Città: tutte fantasie nostre o qualche proposta l’ha ricevuta per davvero?
“No, non erano fantasie. Delle proposte ci sono state, da varie parti ma le ho sempre respinte. Perché? Non sono un politico, sono un imprenditore e un manager del cambiamento che realizza visioni. E oggi l’interesse mio, e di DiCo è fare qualcosa per Benevento: a chiedercelo è questo sentimentalismo legato alle nostre radici. E vogliamo farlo in una logica di dialogo costruttivo con le varie amministrazioni che si avvicenderanno sul territorio. Perché il bene comune è trasversale ai colori politici. E noi non vogliamo sostituirci a nessuno, ma far comprendere che l’arte può essere un nuovo linguaggio per creare economia e sviluppo sostenibile e quindi duraturo. Un’economia che oggi non passa più semplicemente per canali tradizionali come il commercio e l’industria”.

Nel 2012 le venne assegnato ‘Il Gladiatore Sannita’, premio che dedicò ai ragazzi di questa terra: oggi cosa si sente di dire alle nuove generazioni, in un momento in cui sembra sempre più difficile essere giovani e restare nel Sannio?
“Ritengo che oggi si possa rimanere nel Sannio più di allora, pur non vivendo nel Sannio e non rinunciando a opportunità che per varie ragioni puoi cogliere soltanto altrove. Per capirci: si può fare tanto per il Sannio pur restando fuori. E uno dei progetti che presto porteremo avanti con l’associazione riguarderò proprio questo tema: coinvolgere in un’unica rete tutti i talenti sanniti che si sono distinti, anche se fisicamente oggi si trovano altrove. Ma è evidente che il tema principale è questo: il decremento demografico del territorio e l’emigrazione giovanile. Ed è un tema a cui tengo molto: perché sono i giovani ad avere tempo ed energie utili a dare un futuro alla nostra terra e perché comprendo bene – per esperienza diretta – cosa vuol dire andare fuori per realizzarsi. Ma adesso gli strumenti per affrontare la questione ci sono. Più di ieri. Sono fiducioso”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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