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“La Repubblica Democratica e la narrazione del “sé”: sulla toponomastica la riflessione di Gaetano Cantone (Anpi)

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Di seguito la riflessione elaborata dall’architetto Gaetano Cantone, componente del Gruppo di lavoro sulla Toponomastica dell’Anpi Provinciale di Benevento

“La Repubblica democratica, sorta dalle ceneri di una guerra fratricida contro il nazifascismo può rivendicare, a circa 80 anni dalla promulgazione della sua Costituzione, il diritto di rimettere mano alle proprie simbologie, cioè a quei segni e strumenti utili a veicolare al meglio l’affermazione del “sé”, soprattutto quando è coinvolto l’immaginario di un’epoca, come la nostra, che vive nella mutazione costante. Come a dire: la Repubblica non cambia riferimenti costituzionali ma sostituisce i simboli e con essi la narrazione con cui affronta la propria identità, orgogliosamente conquistata, con modalità maggiormente avvertite sul piano culturale ed attrezzate tramite coerenti tecnologie per poter affrontare il significato reale di quella sovranità che la nostra Costituzione repubblicana pone all’articolo 1 con indefettibile demarcazione democratica, cioè basata sul potere del popolo pur nella mutazione dei contesti culturali.

Infatti, credo che sia necessario nell’era della Complessità considerare con rigore che è in atto una vera e propria mutazione antropologica, e quindi sociale, culturale e politica, la cui percezione sarà meglio compresa negli anni a venire e la cui “narrazione” però deve essere realizzata già a partire da oggi.

Nella condizione attuale è importante valutare le modalità con cui una nazione si rapporta con i suoi cittadini e cioè comprendere meglio quale sia la forza e quale l’efficienza delle proprie dotazioni istituzionali. Mi sembra quasi ovvio affermare che ha un ruolo importante, per la formulazione dei nuovi paradigmi, la determinazione di quelle svariate forme d’associazionismo perseguite dai propri cittadini tesi ai «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» come ci sollecita l’articolo 2 della Costituzione, laddove ogni cittadino esperimenta il modello più consono e, nella forma più opportuna, la possibilità d’offrire la propria attività che «concorra al progresso materiale o spirituale della società» (art.4). Non è poco e per giunta non è populistico dichiararsi disponibili al “fare insieme”, al raggiungimento di obiettivi per la causa comune: mi sembra utile pensare ad una sorta di ruolo di interconnessione per ciascun cittadino. La democrazia passa anche per queste vie.

Oggi s’avverte, e si constata, che le società che hanno coltivato l’egoismo degli Stati, tramite forme dittatoriali od anche artefatti tecnocratici, ad esempio come quelli propalati a fine secolo scorso dalla finanza internazionale, tendono ad implodere e nello stesso tempo sono alla mercé dell’indifferenza a riguardo della partecipazione alla vita sociale e alle modalità di aggregazione tra cittadini; considero l’astensionismo elettorale e la caduta tendenziale (e parossistica) dell’importanza dei partiti nella vita sociale come due “aree” fortemente problematiche, tra le tante, che configurano la reale distanza tra cittadini ed istituzioni. Questo rappresenta un grave aspetto della crisi che attraversiamo, che si appalesa in forme carsiche e quindi non immediatamente percepibili; crisi che riguarda soprattutto quella forma di smemoratezza collettiva della propria Storia: una rimozione dei percorsi duri e difficili intrapresi per divenire una nazione.

Abbiamo un lavoro da compiere e che consiste nell’uso critico e consapevole della memoria: siamo noi, infatti, a scegliere in quella congerie di tracce che il tempo ha lasciato lungo la strada dell’oblio, siamo noi i responsabili d’aver disseppellito, scavato e sottratto ancora al tempo che fugge le testimonianze che riteniamo organiche ai nostri percorsi esistenziali. Si tratta di mettere in relazione testimonianze, documenti e persone per costruire quello storytelling (la capacità di narrare, anche di affabulare) necessario per la comprensione della contestualità in cui si possa identificare la “comunità” dei cittadini; in questo caso, sono decisivi il ritrovarsi e il riconoscersi e il pensarsi uniti negli ideali come nelle pratiche. L’antifascismo deve aprire quelle finestre ancora socchiuse, ancora ambigue, ancora solerti nel velare quelle condizioni oscurantiste di importanti “pezzi” del nostro passato, anche recente.

L’applicarsi allo studio della memoria storica di eventi drammatici, di accadimenti della quotidianità, delle esistenze di persone diverse, non a caso inerisce al presente più che al passato, entra cioè nella ‘costruzione’ identitaria delle comunità; è questo il principio ispiratore con cui affrontare all’interno della simbologia una coerenza semantica con la narrazione complessiva di pertinenza delle diverse comunità territoriali.

Nell’era della ‘Grande Comunicazione’ è sempre più precaria la riconoscibilità di segni a pertinenza collettiva mentre, al contrario, tramite i social (anch’essi mezzi di comunicazione di massa con il loro mutare costantemente) si impongono imprecisi, confusi ed approssimati segni di stretto interesse individuale; è richiesto un impegno politico per poter liberare la narrazione del sé, anche da parte delle istituzioni della Repubblica democratica; si avverte la necessità di riordinare il magma delle traiettorie comunicative e far pulizia dell’ambiguità- cui si faceva cenno innanzi – dei molti contenuti portatori di una visione reazionaria ed illiberale del mondo; diviene doveroso analizzare e sottoporre a rigoroso giudizio storico e critico, l’apparato semantico a disposizione della Nazione.

Con la proposta di mutare definitivamente anche la toponomastica di una città ci si fa responsabili di una narrazione che la Repubblica democratica intende soprattutto come atto consapevole di densità morale.

Il cambio di una denominazione e la variazione delle titolazioni s’avvalgono dei medesimi motivi per i quali le persone si sono emancipate dall’oppressione nazifascista.

Bisogna, infatti, superare gli atteggiamenti qualunquistici e non farsi più carico della concezione del “vogliamoci bene” o degli “italiani brava gente” e fare chiarezza sui contenuti per i quali le titolazioni delle vie o delle piazze, dei luoghi della città sono a pieno diritto forme della comunicazione del sé e della propria storia da parte delle comunità.

Si propongono titolazioni diverse per affidare anche al futuro la piena consapevolezza della storia territoriale. L’appropriazione dei principi su cui è costituita la Repubblica è già parte di una Storia collettiva e reca l’accorto sentimento di appartenenza ad una terra, ad una lingua e ad una cultura: son questi elementi che conducono alla strutturazione della memoria personale che sostanzia il percorso esistenziale di ciascun cittadino; sono questi i motivi che si pongono alle coscienze più avvertite, motivi non dettati da cervellotici “rifar daccapo” ma far pulizia delle ambiguità ipocrite o delle improprie compresenze non dimenticando mai il sangue sparso dai cittadini italiani per costruire questa Repubblica democratica”.

 

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