Opinioni
Con chi te la vuoi prendere se sei nato a Caivano o nel Fortore?
Dinanzi ad una scuola pubblica in costante declino da ormai due decenni, dinanzi a livelli di analfabetismo funzionale senza pari in Europa, dinanzi ad un corpo docente mortificato da salari infami, prevale la logica del mercato, il darwinismo più spietato e non sembra esserci alternativa possibile. Se nasci a Calitri o a Sant’Agata dei Goti, piuttosto che a Caivano o a Secondigliano, è colpa tua e di chi ti ha messo al mondo. Anche se poi, quando un fatto di cronaca restituisce l’evidenza del disastro già compiuto, quando l’istat ci rammenta che nel giro di un paio di decenni un terzo dei nostri Borghi non ci sarà più, ci si ricorda della scuola, della sua funzione, della Costituzione, rinviando ad un domani indefinito soluzioni strutturali perché l’emergenza impone un nuovo decreto e qualche blitz, perché la finanziaria impone rigore e cautela, perché tanto il Sud sarà zona economica speciale e presto, prestissimo, il ponte sullo stretto sarà realtà
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Nella settimana in cui le campanelle di tutta Italia torneranno a suonare, come a volerci destare dal lungo letargo di questa estate lunare, ci pare doveroso riflettere sullo stato comatoso in cui versa la scuola pubblica italiana con particolare riferimento al Mezzogiorno e alle nostre aree interne. E lo facciamo muovendo dai numeri, drammatici, secondo cui in Campania perdiamo circa 15 mila iscritti all’anno a causa del combinato disposto tra denatalità ed emigrazione. Numeri il cui impatto si fa devastante nei territori interni e marginali, posto che se Napoli e Caserta mantengono livelli di natalità superiori alla media nazionale, mentre Salerno paga un calo ancora contenuto, Sannio e Irpinia proseguono spedite verso la desertificazione.
Sul piano regionale, stando a quanto stabilito dal governo, perderemo, tra quest’anno e i prossimi, 200 istituti. E con gli istituti 4 – 5 mila posti di lavoro tra docenti, dirigenti scolastici e tecnici a cui vanno sommati ben 15 mila posti di lavoro a tempo indeterminato con conseguenze ovvie, e inevitabilmente devastanti, proprio sulla natalità. Un incentivo a migrare per migliaia di famiglie, un disincentivo a procreare per chi non resterà.
Tagli che colpiranno soprattutto le aree interne, già flagellate da accorpamenti e chiusure, in attesa dell’autonomia differenziata. Tagli che il legislatore ha legittimato ricorrendo ai numeri, trovando riparo nella necessità di perseguire la sostenibilità economica, dunque muovendo dall’assunto che i criteri validi per metropoli e centri urbani sono i medesimi che si applicano in Alta Irpinia o nel Fortore. Quel che vale per la sanità, dunque, vale per la scuola: parti uguali tra disuguali.
Dinanzi a tutto questo, dinanzi ad una scuola pubblica in costante declino da ormai due decenni, dinanzi a livelli di analfabetismo funzionale senza pari in Europa, dinanzi ad un corpo docente mortificato da salari infami, prevale la logica del mercato, il darwinismo più spietato e non sembra esserci alternativa possibile. Se nasci a Calitri o a Sant’Agata dei Goti, piuttosto che a Caivano o a Secondigliano, è colpa tua e di chi ti ha messo al mondo. Anche se poi, quando un fatto di cronaca restituisce l’evidenza del disastro già compiuto, quando l’istat ci rammenta che nel giro di un paio di decenni un terzo dei nostri Borghi non ci sarà più, ci si ricorda della scuola, della sua funzione, della Costituzione, rinviando ad un domani indefinito soluzioni strutturali perché l’emergenza impone un nuovo decreto e qualche blitz, perché la finanziaria impone rigore e cautela, perché tanto il Sud sarà zona economica speciale e presto, prestissimo, il ponte sullo stretto sarà realtà.
Da questo punto di vista le responsabilità maggiore grava sulle spalle dei nostri ceti dominanti del tutto incapaci di farsi classe dirigente, di farsi interpreti dell’unico meridionalismo sensato in questo tempo.
Rincorriamo fondi e opere, infrastrutture e progetti, treni e piattaforme logistiche, dimentichi della sola verità che dovremmo affermare e porre a servizio dell’intero Paese: la prima infrastruttura di ogni nazione che intenda ambire all’avvenire è il capitale umano. Ed è un’infrastruttura che si costruisce, di generazione in generazione, tra i banchi di scuola, innanzitutto in quei contesti dove il futuro è una fatica, dove lo studio, il sacrificio e la fame rappresentano le uniche leve dell’ emancipazione possibile. Il motore del progresso nel quale abbiamo smesso di credere.
Ma d’altro canto non è interesse dei ceti dominanti combattere per una scuola migliore, perché una scuola che funziona trasforma i sudditi in cittadini. E i cittadini rivendicano diritti invece di elemosinare favori.