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CULTURA

La Settimana Santa senza Resurrezione: c’inchioda alla Croce il canto di Luigi Romano

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Se foss’acqua non scorrerebbe sull’impurità. Se fosse fuoco non ci purificherebbe. Questi amore e rivolta assieme, di un figlio nei confronti del padre, forse non riusciranno nella rinascita. Ci inchiodano, tuttavia, a una croce, priva di Resurrezione.

“Luigi le parole mistificano la realtà” lo avverte il genitore. E Luigi, invece, affida proprio alle parole la speranza: gridare ai sordi e mostrare ai ciechi ché chi accetta è morto di già.

La Settimana Santa, per i tipi di Napoli Monitor, in prima edizione nel marzo del 2022, ripercorre, con la caparbietà di un sopravvissuto e il rigore di un accademico, la mattanza del 6 aprile 2020, nel carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere. In quel giorno polizia penitenziaria ordinaria, nuclei speciali, comparto amministrativo e classe dirigenziale si macchiano di violenze e torture su detenuti. Denudati, derisi, percossi, annientati nel corpo e nell’anima, in nome dello Stato. Questo si osserva e s’ascolta, nelle immagini e nei file audio, dalle bocche degli aguzzini: gli stessi che lo Stato aveva chiamato a rappresentarlo.

Non è stata la prima volta, non sarà di certo l’ultima. Cosa cambia allora nel racconto di Romano? Meglio, cosa Romano vuol cambiare?

La conoscenza. Da una mutata, acquisita comprensione si intende spronare a una riforma, a un nuovo equilibrio, che non sia fatto di interessi di categoria o di pratiche emergenziali ma che sia ricomposto alla luce delle analisi: oggettiva, fattuale e teorica. Dove siamo. Dove dovremmo arrivare. Cosa desideriamo diventare. Cosa possiamo essere. Romano, per chi lo ha ascoltato, ha una dote smisurata: la semplicità della esposizione stretta dal rigore della conoscenza. Per raggiungere lo scopo, mai dichiarato ma sussunto con facilità, grazie alla narrazione tesa, breve, scomposta fino al nucleo, espone i fatti. Finisce col metterci spalle al muro.

Scordate qualsiasi insegnamento sulla funzione rieducativa della pena. Il sistema attuale nelle carceri italiane no, non la consente. Ciò che si tenta di non far saltare è semplicemente la funzione detentiva: di isolamento dalla società, coi corollari di malattie fisiche, psichiche, di violenza e di aggravamento, in termini personali prima, e sociali poi, che ciò comporta. Volete sapere cosa accade nelle carceri italiane? Accomodatevi.

“Rischiamo di perdere il carcere” dicono i superiori il 5 aprile nel carcere Uccella di Santa Maria Capua Vetere, quello che sorge di fronte una discarica, in mezzo al nulla, sulla strada statale 7 bis.

Nonostante i detenuti, senza alcuna forma di violenza, avessero solo protestato per avere mascherine e tamponi, lo stesso giorno, in piena isteria pandemica, dopo il contagio conclamato di uno di loro, ricoverato in gravi condizioni, e in extremis. Nonostante subissero l’eliminazione emergenziale di tutte le procedure, dai colloqui coi familiari all’accesso in infermeria. Avevamo protestato senza alcuna forma di violenza.

Da parte loro.

“Vi aspetto in trincea”, “I ragazzi sanno cosa fare”, “Chiave e piccone”, “Li abbattiamo come vitelli”, “Arrivano i lupi”, rispondono le guardie e gli operanti.

E qui Romano, che tanto aveva spiegato, ricordato e connesso, con uno scarto, incalza coi fatti. Le parole divengono immagini, le immagini sassi, i sassi colpi, a chiudere lo stomaco. Vince la disputa paterna, le parole non mistificano più: sono la luce. La luce della Settimana Santa sulle tenebre della barbarie.

“L’ingresso avviene rapidamente, gli agenti si muovono compatti verso le celle a gruppi di tre. La proporzione, tra agenti impiegati nella perquisizione straordinaria e detenuti, è uno a uno. Raggiungono gli uomini con scariche di manganellate, calci e pugni … li fanno uscire per condurli o farli correre nelle salette della socialità. Fuori al corridoio che collega questi due punti, file di poliziotti picchiano i detenuti, che arrancano con le mani dietro la nuca”.

“Il capo della sezione… sei inutile, non comandi nemmeno a casa tua, sei il cazzo mio – dice un poliziotto penitenziario -. Il ragazzo mentre ascolta queste parole viene raggiunto da calci sulla schiena talmente forti da farlo cadere per le scale. Una volta a terra, viene bersagliato da sputi sul viso e manganellate. Queste scampagnate di gruppo sono anche le occasioni in cui è bene prendersi gioco dei nemici, per questo un ispettore mentre chiede agli agenti di non picchiare una persona, la percuote con il proprio manganello, suscitando le risate degli spettatori”. “La stanza della sorveglianza viene adibita a camera di tortura, amplificazione particolare di quello che sta accadendo agli altri piani. In alcune scene riprese nei pressi di questa stanza, si vede un medico che guarda da lontano un detenuto martoriato che esce dalla cella. Il medico si limita a indicare a qualcuno lì vicino la ferita sanguinante sulla testa del ragazzo”.

Un altro ragazzo implorava “perché ci state facendo picchiare, aiutatemi, sto subendo troppo, mi stanno uccidendo” e mentre la dirigente rispondeva “per colpa vostra sto facendo le nove di sera” un agente vicino gli sferrava due pugni in volto”.

“Erano stretti come i tonni nella camera della morte, si agitavano provando a scappare ma subito venivano arpionati, trascinati nelle zone più appartate per ricevere punizioni. Le macchie di sangue erano ovunque”.

I reati contestati dopo la mattanza? Tortura, lesioni, abuso di autorità, falso in atto pubblico, calunnia depistaggio, favoreggiamento; e per 12 indagati, tra cui il comandante della polizia penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere, e il provveditore regionale, l’omicidio colposo per la morte di un detenuto.  “E’ stata coinvolta tutta la linea di comando – scrive ancora Romano – vertice e funzionari dell’Amministrazione, vice direttori, comandanti, agenti e ispettori”.

E’ stato grazie al magistrato di sorveglianza che i tentativi di depistaggio di tutti i responsabili non sono andati in porto. Il 9 aprile, insospettito dall’atteggiamento della polizia penitenziaria, il magistrato ordina in modo perentorio di portare a colloquio quelli che il giorno prima gli erano stati negati per presunta carenza di personale. Solo a quel punto si dispiegano le immagini della perquisizione: le persone massacrate.

Ora abbandona la fionda Romano. Porge i fogli allo studioso , analizzando le cause della deriva: “In un sistema di continua emergenza carceraria, si era preferito rafforzare il braccio armato della polizia per risolvere le situazioni difficili. Se questo è il dato che raccogliamo negli ultimi 20 anni siamo legittimati a pensare che il ricorso al contenimento violento non costituisca uno strumento occasionale ma una scelta politica. Le travi portanti di ogni sistema penitenziario sono: il potere e la violenza”. Si riflette su come nessuno, nemmeno tra gli educatori, abbia pensato di approfondire la vicenda, “complici o utili idioti, nei fatti allineati a quella interpretazione del contesto penitenziario che vede gli istituti come campi di battaglia. In effetti, guardando con estremo cinismo e distacco i fatti accaduti, a tutti faceva comodo tornare a lavorare in un ambiente tranquillizzato”. “Lo spettacolo della punizione, il dispositivo pornografico attorno al supplizio, si attivarono più di un anno dopo, con la pubblicazione delle immagini registrate e salvate dai tentativi di cancellazione delle guardie. Quando gli urti dei manganelli cominciarono a rimbalzare da un canale all’altro, da un sito all’altro, il paese sembrò accorgersi per la prima volta dei problemi del mondo penitenziario”.

Il nostro sistema è imploso scrive Romano e indica il Re. L’ideologia istituzionale della riabilitazione penitenziaria è ormai solo facciata della esecuzione penale che altro non è se non contenimento. Potevamo immaginare accadesse? Sì. Perché? Basta osservare le proporzioni delle risorse impiegate: una media nazionale di un educatore ogni 90 detenuti, per scendere a uno ogni 150 a Poggioreale. Agenti: uno per ogni detenuto su media nazionale. Uno ogni tre a Poggioreale.

Nelle ultime, bellissime pagine dell’incontro con Nicola Staiano, è come se si compisse un passaggio del testimone: da chi ha provato, invano, senza resa, a chi, senza resa, s’appresta a provarci. Perché “…dio mio, e se si provasse a trattenere il respiro. Se si cercasse, se si provasse di fermare il giro”.

Luigi Romano, avvocato e dottore di ricerca, è presidente di Antigone Campania, associazione nazionale per la tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario. Collabora con Napoli Monitor e Lo stato delle città. (Tiziana Nardone)

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