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Religione

Pasqua, il messaggio del vescovo Battaglia: “Più forte della morte è l’amore”

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“Per uno come me che cerca, da povero cristiano, di “vedere” Gesù e la sua vita, per lasciarsene in qualche misura contagiare, è fonte non piccola di consolazione il fatto che Gesù stesso abbia provato turbamento della morte. Lo ammetto, me lo sarei sentito meno vicino, meno compagno di viaggio, se non ne avesse diviso con me il turbamento, se verso la morte fosse andato con passo arrogante, da eroe, il forte cui non trema il cuore. Forse per questo, o anche per questo, non provo scandalo né per il Vangelo di Marco che di Gesù sulla croce, come ultima voce prima che spirasse, ricorda il grido, un grande grido che sembrò impigliarsi al cielo, né provo scandalo per uomini e donne che sembrano, nel loro morire, rivivere quel grido di Gesù sulla croce: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”, e oso anche sperare che, se questo sarà il mio grido, l’ultimo, qualcuno abbia tenera e larga compassione anche di me.

Il grido, quel grido, sembrò senza eco nei cieli, ma ci fu una risposta, risposta di luce e di vento, dopo tre giorni; fu l’avverarsi della piccola parabola che Gesù insegnò ai suoi, proprio il giorno in cui sentì l’anima turbata, la piccola parabola del chicco di grano che, cadendo nell’invisibilità buia della terra, proprio nella sua morte si apre al sussulto di un nuovo germoglio. Se tu mi racconti quella parabola sento arretrare la paura. Vorrei che qualcuno me la ricordasse nell’ultima ora. Nemmeno il figlio dell’uomo fu salvato dalla morte. Nella morte è entrato come noi, come noi è caduto nella terra, ma da quella terra, che sembrava il segno della vittoria del male e della morte, fu resuscitato. E così Dio ha glorificato il suo nome. Perché la morte, la morte di nessuno, può essere una gloria di Dio. Il suo nome non è glorificato nella morte, ma nella vita dei suoi figli.

Ecco, quindi, la parabola di Gesù, del chicco di grano caduto a terra. Per tre giorni caduto nella terra, nell’invisibilità, nel silenzio. Ma quel seme riposava nella terra: è rigermogliato. È risorto! E noi ancora oggi vediamo l’albero dare frutti. La linfa giunge fino a noi. E ci rende vivi. La parabola ci viene consegnata non solo come memoria, ma come invito: se uno mi vuol servire, mi segua. Al verbo vedere si accompagna il verbo seguire. “Vogliamo vedere Gesù!”, era il desiderio che mette in movimento.

Ora ti viene detto: hai visto, seguilo. Anche tu sii chicco di grano. Stai nella terra di tutti, nell’apparente insignificanza dei gesti quotidiani, nella dedizione apparentemente inosservata, stai nella terra dell’apparente insuccesso, nella terra delle domande senza risposte. E ricorda al tuo cuore la piccola parabola di Gesù: il seme produce molto frutto. Anche se gli occhi stanchi non vedono.

Lassù sulla croce, tra il diluvio e l’arcobaleno, è piantata la tenda del cristiano, l’unico spazio in cui il Vangelo e i drammi dell’uomo si danno appuntamento per abbracciarsi. Credere è vedere una spiga di grano là dove tutti vedono un seme marcire.
Gesù affronta l’ora della morte non come un eroe, ma come un uomo tra gli altri, un uomo che ha paura di morire. “L’anima mia è turbata”. Lui è sconvolto. E appare debole, fragile, indifeso, smarrito. La sofferenza composta, bella a vedersi, non esiste. E, se esiste, non è vera sofferenza, è solo una recita. Il dolore appare sempre scandaloso, impresentabile, spaventoso a vedersi. Forse è possibile cantare (e piangere) portando la croce, ma non è possibile portare la croce gonfiando il petto o assumendo pose edificanti. Solo nella debolezza, non nella forza, è possibile portare la croce.

Gesù, quando vede avvicinarsi la sagoma inquietante del calvario, non sospira devotamente: urla. E, appena prima di morire, l’aria sarà lacerata dal suo grido. Noi desidereremmo che l’Uomo dei dolori ci fornisse delle risposte. Invece sulle sue labbra troviamo solo delle domande, a cominciare dalla più sconvolgente: perché mi hai abbandonato? In quella voce ci sono la nostra disperazione, i nostri tormenti, i nostri dubbi, le nostre proteste, le nostre ribellioni. E quelle forti grida non sono ancora spente. L’esaudimento da parte del Padre non è concesso nel dispensare Gesù dalla prova tremenda, ma nella trasformazione della sofferenza in cammino di salvezza. Anche il dolore può diventare sacramento di fraternità, scuola di umanità. Perché il dolore trasforma l’uomo. La sofferenza diventa perciò via di salvezza in Cristo. La croce non ci fu data per capirla, ma per aggrapparci ad essa. Si è cristiani per attrazione: “Attirerò tutti a me”, e la fede è contemplazione del volto del Dio crocifisso. Gesù non affronta la crocifissione con la forza, ma nella debolezza e, soprattutto, nell’amore.

“Vogliamo vedere Gesù!”. Il suo amore non si arresta, rifà la storia dal di dentro, raddrizza, consola, costruisce, raggiunge, asciuga lacrime. Ci dona di diventare partecipi. Ci raggiunge la sua voce, ci chiama a stare con Lui, noi incapaci di accompagnare le domande e il dolore dell’altro, noi incapaci di aprire le porte delle chiese, incapaci di credere che davvero la croce, su quella croce, è l’albero della vita. Non fallimento, ma vita compiuta, non solitudine ma vita di figlio e fratello.

Il mistero della morte si fa mistero di prossimità. Il suo passare al Padre porta sulla terra la vita che possiamo riconoscere e accogliere. È diventata la porta sull’umano. Nella sua morte tocca fino in fondo la nostra umanità. Dona fecondità anche alla morte. Vita dalla morte. Ha vinto il suo abbandono a Dio, ha vinto la sua passione per noi umani. Come a dire che l’amore, la passione per Dio e per l’uomo non muore, è più forte della morte. Più forte della morte è l’amore. È un amore che non può morire”. (don Mimmo Battaglia, vescovo della Diocesi di Cerreto Sannita – Telese – Sant’Agata de’ Goti)

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