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Opinioni

Quella violenza contro le donne, che non è solo fisica

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Uomini che odiano le donne. E donne che non si amano abbastanza. Oggi, nella giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne, tutto il mondo riflette sul femminicidio, su quei delitti, ad errore definiti passionali o raptus. Un fenomeno che ha dimensioni agghiaccianti: più del 70% delle donne nel mondo ha subito violenza almeno una volta nel corso della vita, ha ricordato il segretario generale delle Nazioni unite Ban Ki-moon.

“Dobbiamo porre l’attenzione su un fenomeno terrificante, ancora in aumento, che si può contrastare con la prevenzione, ma servono risorse adeguate” ha detto Laura Boldrini, presidente della Camera, che ospiterà parlamentari e ministre, attrici e cantanti perché prendano parte alle lettura dei monologhi di Serena Dandini, “Ferite a morte”, una Spoon River di storie di donne uccise per mano di mariti, compagni o fidanzati. Ma in attesa che le risorse arrivino non si sta con le mani in mano. Il ministero della Salute sta lavorando a un progetto per un percorso nei Pronto Soccorso riservato alle vittime di violenza, con un luogo dedicato all’accoglienza, in cui possano sentirsi protette, comprese e aiutate.

Ma la violenza sulle donne non è solo fisica. Esistono altre forme di soprusi, meno evidenti, quasi velati che pongono la donna in un ruolo subalterno, di inferiorità, rispetto all’uomo. A volte anche per un semplice appellativo. La lingua italiana, quando si tratta di cariche istituzionali, è maschilista. Pensiamo agli appellativi: il ministro, il presidente, il direttore. E a quelle domande che spesso vengono rivolte con un sorriso sul volto, quasi come se per una donna ricoprire tali ruoli fosse un’anomalia. “Lei vuole essere chiamata il ministro o la ministra? Preferisce il direttore o la direttrice? Meglio il presidente o la presidentessa?”. La lingua italiana non sembra essere pensata per le donne.

Anche il mondo del lavoro è troppo ginofobico. Gli ultimi dati ci rivelano che solo il 50% delle donne lavora in Italia. Nei posti “che contano” è rarissima la presenza femminile. Tanto che, per esempio, vedere una donna Sindaco, manager o anche direttore di un giornale, è quasi una rarità.

Anche il modo di pensare della società è declinata al maschile. Una donna non sposata, in carriera, senza figli, oppure una giovane madre single o una donna che decide di divorziare dal marito, se non vengono compatite, sono additate dal chiacchierare della gente, nelle strade polverose di provincia. Non interessa alle comari di piazza che quelle scelte di vita, potrebbero essere frutto della faticosa decisione di liberarsi da mariti o compagni violenti. Così, quanti casi, nascosti, sommersi, ignorati, di donne che continuano a subire in silenzio violenze o soprusi, pur di non dar vita a “pubblico scandalo”, figlio di una mentalità oscurantista e bigotta, ci sono? Tanti, troppi. Ma nessuno ne parla. E se non si denunciano, queste violenze, di fatto, non esistono. I lividi sul viso passeranno, qualcuno girerà la faccia, facendo finta di nulla, e le indelebili ferite nel cuore, quelle, tanto, non si vedono.

Piccole sfumature rispetto ai delitti e agli omicidi che vedono le donne perdere la vita per colpa di una mano che ci si illudeva essere amica. Ma che rendono l’idea di una esistente difficoltà a vivere con pari diritti, a ricoprire cariche importanti con pari dignità, ad essere non una minoranza da proteggere, ma l’altra metà che serve per creare un cielo meraviglioso su questo nostro piccolo grande mondo.

Erika Farese

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