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CULTURA

Stefano Stisi, il medico sannita che lotta per le aree marginali: ‘Il futuro si ricostruisce con buona politica, rivoluzione energetica e rispetto della persona’

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Tra i massimi esperti italiani di reumatologia, il sannita Stefano Stisi rappresenta una delle voci più autorevoli quando si parla di sanità, medicina del territorio e futuro delle aree interne. Medico chirurgo specialista in Reumatologia, Stisi ha attraversato quarant’anni di servizio pubblico ricoprendo ruoli chiave negli ospedali del Sannio, fino alla guida della Struttura di Reumatologia dell’Azienda Ospedaliera “Gaetano Rummo” di Benevento (oggi “San Pio”). Parallelamente, ha contribuito in modo determinante allo sviluppo della disciplina in Italia, guidando il Collegio dei Reumatologi Italiani (CROI/CReI), sedendo negli organismi nazionali della Società Italiana di Reumatologia, fondando riviste scientifiche e coordinando studi clinici di rilievo. Ma l’impegno sul campo non si è esaurito nella dimensione clinica e scientifica. Da presidente del Laboratorio socio-culturale Sammarco, è oggi una delle figure più attive nel tentativo di riportare al centro del dibattito pubblico i temi cruciali della marginalità, dello spopolamento e della qualità della vita nelle aree interne campane. Una ‘militanza civile’ che si intreccia con la sua riflessione sulla comunità e sull’identità dei luoghi, alla base anche dei suoi lavori letterari dedicati all’Alto Sannio.

Con questo bagaglio di competenze e visione, Stisi offre un osservatorio privilegiato sulle criticità della sanità campana e sulle sfide che attendono i piccoli comuni dell’entroterra. In questa intervista approfondita, analizza le debolezze del sistema sanitario, le difficoltà quotidiane dei territori marginali, le prospettive della reumatologia moderna e il valore culturale e umano delle comunità locali. Uno sguardo lucido e appassionato su ciò che non funziona e su ciò che può ancora rinascere.

Dr. Stisi, lei è uno dei più accreditati reumatologi italiani, con un osservatorio privilegiato sulla sanità campana. Quali sono oggi, secondo lei, le principali criticità del sistema sanitario regionale, in particolare nei reparti ospedalieri e nei servizi territoriali?
La principale criticità – a mio avviso – è la netta riduzione dei volumi di offerta sanitaria rispetto a quella di cui hanno bisogno i nostri cittadini. Tutto ciò risiede nell’eccessivo taglio dei posti letto ospedalieri, nonché degli hospice e delle RSA, che la Regione ha dovuto effettuare per rientrare nei piani economici imposti dai governi che si sono succeduti negli ultimi 20-30 anni in Italia; a seguire, dalla riduzione indiscriminata degli ingressi universitari verso la laurea in Medicina. In entrambi i casi non sono riuscito a intravvedere segni di programmazione, né di strategie. Di ciò ne pagano e ne pagheranno le conseguenze i cittadini.

Parlando nello specifico delle aree interne, come la sua San Marco dei Cavoti, quali sono le difficoltà più urgenti che i cittadini affrontano nell’accesso alle cure? E quanto pesa, nella quotidianità di un medico, il fenomeno dello spopolamento?
Per le urgenze/emergenze sanitarie su questi territori, in particolar modo dove non esistono strade a scorrimento veloce, pensiamo ad esempio al Fortore o al Titerno, la mancanza dei medici sulle autoambulanze costringe spesso il paziente a usare un’autovettura che si dirige senza nessuna assistenza medica verso un ospedale, che a volte dista più di 40 minuti di viaggio. Anche la prevenzione sul territorio ha grosse limitazioni ed è affidata alle poche iniziative della ASL e/o delle associazioni di volontariato. Nelle aree interne, ma io direi forse più correttamente nelle aree marginali, abbiamo assistito al progressivo e inesorabile ritiro dei servizi sul territorio; cosa della quale non se ne può dare responsabilità particolare a nessun locale, poiché la mancata programmazione appartiene a tutti i livelli di intervento. In parole povere, non vedo responsabilità dirette delle ASL territoriali, ma di chi avrebbe dovuto non lasciarle sole, senza mezzi e con poco personale.

È stato primario del Reparto di Reumatologia dell’Ospedale “San Pio”: quali sono i bisogni più immediati del sistema ospedaliero sannita? Tecnologia, personale, percorsi diagnostici… da dove bisogna ripartire?
Penso che oggi manchi un po’ di tutto, anche se posso testimoniare che tutti i medici e gli infermieri siano lodevoli nel loro lavoro, effettuato dignitosamente anche se con piante organiche ridotte e già nella programmazione iniziale spesso troppo striminzite; inoltre le tecnologie non sono sempre le più moderne e spesso sono carenti di manutenzione. Se mi chiede da dove in teoria bisognerebbe ripartire, direi che sarebbe giusto individuare manager di ottima preparazione e che abbiano già ottenuto risultati efficaci in altre realtà nazionali o internazionali. E poi ancora tentare di aumentare l’autonomia delle ASL e dei presidi ospedalieri dal controllo e dalla gestione serrata delle Regioni. Cosicché negli anni a venire, nei tempi più maturi, si dovrà tentare uno scollamento tra la politica, l’economia e il diritto alla Salute dei cittadini. Il cittadino che sta male non è di destra, di sinistra o di centro, né merita o demerita di essere maltrattato nei suoi diritti solo perché residente al Sud o in un piccolo paese montano. È un cittadino italiano che paga le tasse allo stesso modo di tutti gli altri, al Nord, al Centro o al Sud. Il diritto alla Salute è solo uno e non può essere coniugato in venti modi diversi.

Il nuovo governo regionale si troverà di fronte alla sfida di ridurre il divario tra fascia costiera e aree interne. Quali iniziative concrete dovrebbe mettere subito in campo per migliorare realmente la qualità dei servizi?
Non penso che il nuovo governo regionale possa affrontare questa sfida nella sostanza, ma solo nella forma, dal momento che per riorganizzare il SSR bisognerebbe disporre di una quantità di fondi che l’Italia non ha o che distribuisce o gestisce male. La Campania non ha attuato da tanto il suo ultradecennale “piano di rientro” nei conti economici. Assistere meglio significa spendere di più. Un errore che facciamo dalla fine del secolo scorso è considerare la manutenzione della Sanità come una spesa, mentre in realtà è solo un investimento sulle persone e sulla società. Bisogna avere il coraggio di effettuare una rivoluzione culturale nel welfare,in contro accettare di veder scendere come su di un piano inclinato – ineluttabilmente verso il basso – tutti i servizi alle persone.

Lei è anche impegnato sul fronte sociale e culturale con l’associazione Laboratorio Sammarco. Quanto può contare il ruolo della comunità e del capitale umano locale nel rilancio delle zone interne? E quali risultati state iniziando a vedere?
La nostra associazione è un neonato di belle speranze, essendo stata creata a gennaio di quest’anno e cominciato a operare a luglio seguente. Stiamo iniziando a presentare nuovi modi di vedere le cose al servizio di una comunità molto più ampia di quella dei singoli comuni, senza più ottiche di campanili. Le nostre zone pedemontane si sviluppano su una superficie di circa mille Km quadrati, quasi quanto l’intera provincia di Napoli, con una popolazione di circa 45mila abitanti. Le caratteristiche culturali e abitative,la cucina, il dialetto, sono molto simili le une alle altre. Mettere insieme energie, progetti e strategie creerebbe molti servizi fondamentali alle persone e al territorio che non è assolutamente un territorio povero, come invece la visione denaro-centrica vuole darci a vedere. Per fare un esempio specifico, tutta la zona dell’Alto Sannio pedemontano produce energie rinnovabili che alimentano di elettricità alcuni milioni di italiani. Se tali energie ricadessero anche solo in piccola parte sui territori delle “pale eoliche”, la zona acquisirebbe i vantaggi di aree che possono regalare energie alle produzioni locali e alle fasce deboli della popolazione, nonché agli asili, ai servizi comunali e quanto altro. Tutto ciò potrebbe diventare “conveniente” favorendo molte persone ad insediarvisi, ripopolando le nostre terre. I risultati di tali programmi e strategie richiederanno anni di costante lavoro per la nostra associazione e almeno un cambio generazionale, sul quale stiamo iniziando a preparare le persone.

Passando alla dimensione scientifica e del suo lavoro, quanto è cambiata la reumatologia negli ultimi decenni e quali sono le nuove sfide che la ricerca pone ai clinici?
La reumatologia è cambiata parecchio guardando a patologie autoimmuni dapprima – fine alla fine del secolo scorso – inguaribili e oggi facilmente curabili e non più causa di disabilità e sofferenza. Nuovi farmaci hanno dato alle persone non solo speranza, ma soprattutto qualità di vita giovevole. Guarire da una malattia reumatica autoimmune prima era un miraggio, oggi è quasi una certezza. Anche prevenire le malattie degenerative, come l’osteoporosi e l’artrosi, è oggi possibile evitando la magrezza o l’obesità, e favorendo l’attività fisica, che è sempre più diffusa e praticata a tutte le età.

Un passaggio anche sulla sua passione per la scrittura. Nel 2020 ha pubblicato ‘Tra Saragolla e Querce’, un libro profondamente radicato nella memoria del suo paese. Nella scorsa estate un secondo libro ‘Nei fondali del mare di Baselice’, questa volta ambientato nei paesi dell’alto Sannio. Cosa l’ha spinta a scrivere queste narrazioni e quanto la sua esperienza di medico ha influenzato il modo di raccontare la vita, le radici e il senso di comunità?
Di solito chi sceglie di essere medico ha già scelto di osservare e avere cura dell’umanità prima di iscriversi all’università. Sicuramente è stato così anche per me: l’essere umano è sempre al centro dei miei interessi come medico e come persona. Chi si interessa della persona è portato a farlo anche con le comunità, che ci raccolgono nell’identificazione dei modi di vivere. Io sono sempre stato attratto dalle comunità all’interno delle quali l’individuo non perda la sua peculiare umanità. Comunità piccole che permettono di crescere e di confrontarsi. È questo che mi ha spinto negli ultimi anni a raccontare questa umanità semplice con le sue storie fatte di sopravvivenza dignitosa e di certo non meno degna di quella metropolitana, ma solo diversa. Anche lo scrivere nel dialetto locale è il tentativo di non perdere neanche una goccia delle nostre tradizioni. Oggi le nostre zone interne vengono considerate quasi cimeli di un passato inutile da ricordare, mentre io penso che le radici e il “sapore” dell’Italia risiedano ancora nei piccoli centri rurali, colonna vertebrale di una identità dai sapori veri e attuali.

Per chiudere con una riflessione: quali sono, secondo lei, i tre pilastri sui quali ricostruire il futuro delle aree interne campane, affinché non si parli più di “accompagnamento al declino” ma di rinascita?
Io non penso che esista al mondo e – tanto meno in Italia – chi possa decidere quali aree debbano andare verso il declino,al punto che solo tratteggiando una linea su una cartina si possa segnare un confine tra aree desuete destinate a morire e altre a svilupparsi. Ho impressione che chi la pensa così non abbia messo a fuoco cosa sia la grande ricchezza dell’Umanità e che sia il Diritto del singolo cittadino. A nessun essere umano possono essere preclusi in modo artefatto, miope e pregiudiziale diritti di esistenza, sviluppo e crescita. La cosa più grave è che un organo di uno Stato democratico e socialmente progredito e ricco abbia pensato questi concetti insensati, volendoli imporre attraverso una programmazione. Stendendo un velo pietoso sul documento SNAI – che prende in esame l’argomento – e sulla contrapposizione tra aree interne e aree costiere, penso piuttosto che dovremmo essere più attenti ad altri temi sociali che si intravedono, come quelle tra le aree marginali e quelle accentranti e ricche, dove l’elevata densità abitativa e un forte dinamismo creano una modalità di vita, sì più produttiva, ma al costo a volte di una esistenza caotica e non a misura d’uomo. Penso perciò che se vogliamo tentare di ricostruire un futuro che riguardi tanto le aree marginali quanto quelle accentranti, dovremmo comprendere che in questo tempo bisogna lavorare su tre pilastri: per primo con una buona politica fondata non sull’uguaglianza ma sull’equità, che tenga presente il rispetto delle diversità sociali quale diritto inalienabile dell’individuo, riducendo i calcoli a volte sterili sulla quantità e abbracciando invece le diversità della qualità. Penso che oggi quest’ultima sia deficitaria nella costruzione delle nostre comunità regionali e della politica nazionale, dove chi partecipa è troppo spesso focalizzato alla sola quantità dei voti da raccogliere e non a programmi, progetti e strategie per raggiungere obiettivi condivisibili per il bene comune. Il secondo dei tre pilastri appartiene alla rivoluzione del cambiamento nella produzione energetica, oggi nel passaggio dai combustibili fossili verso le energie rinnovabili come l’eolico, il fotovoltaico e l’idroelettrico, ma molto più presto di quanto possiamo immaginare, verso l’idrogeno verde. Bisognerebbe prepararsi anche nelle nostre aree. Il terzo e ultimo pilastro costruttivo è il fermo rispetto dell’essere umano, con l’obiettivo del riguardo alla popolazione fatta di individui, alla loro cura e al vero allargamento a tutti dei diritti fondamentali della Salute, della Giustizia e dell’Istruzione.

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