Cittadini
Don Ezio e la sfida quotidiana dell’educare: “I giovani hanno bisogno di adulti che ci siano davvero”

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C’è un’Italia che non fa rumore. Ma chiede ascolto. Un’Italia che non si vede nei telegiornali, che non detta l’agenda politica, che non entra nei trend di TikTok. È l’Italia delle aree interne, dei borghi dove il tempo si posa invece di correre, dove il cielo è più largo e le piazze più vuote. Ma è anche l’Italia dove i giovani, più che altrove, cercano risposte. E troppo spesso non le trovano. Apice, cuore dell’entroterra sannita, è uno di questi luoghi. Un borgo meraviglioso fatto di pietre antiche e volti conosciuti, dove da quasi dieci anni don Ezio Rotondi è parroco, guida spirituale, educatore. È qui che il sacerdote ha visto crescere generazioni di ragazzi con gli occhi pieni di sogni e le tasche piene di paure.
Nei giorni scorsi, la sua voce è risuonata forte — anche se mai gridata — all’indomani della brutale aggressione subita da un ragazzo di 17 anni, pestato da coetanei a Montesarchio la notte del 5 ottobre. Un episodio che ha tolto luce a tutto, lasciando sgomento nella comunità beneventana. Ma per don Ezio non basta indignarsi. Occorre leggere in profondità.
“Sono sicuro che quello che sta accadendo è un segnale che i ragazzi stanno dando agli adulti. Dietro quella violenza c’è un grido di solitudine. E noi grandi, spesso, non ci siamo”.
Don Ezio non viene da lontano: è apicese, ha vissuto il paese nei suoi ritmi quotidiani, nelle sue domeniche di festa e nei suoi inverni lunghi. La sua vocazione nasce lì, “nella semplicità del vissuto quotidiano, delle relazioni vere, di una comunità che ti cresce come persona”.
“A un certo punto ho sentito il desiderio di essere dono per gli altri, di allargare il cuore, e portare Cristo non come una bandiera, ma come una presenza viva. Essere prete in un paese come Apice significa scegliere ogni giorno di essere ponte, di vivere l’umanità dell’altro, anche quando fa male”.
Dopo l’aggressione al 17enne, don Ezio ha parlato con decisione ma con dolcezza: non si è limitato alla cronaca, ha chiesto di andare oltre. “A me non piace sentir parlare di emergenza giovanile. I giovani non sono un problema: sono la domanda che ci viene rivolta. E noi adulti dobbiamo trovare il coraggio di rispondere, di esserci davvero. Non bastano presenze distratte, a tavola con il cellulare in mano o in giro ma altrove con la testa. Serve una pedagogia dell’esserci”.
Oggi, dice, i giovani hanno fame di riferimenti, ma la società sembra averli dismessi. “Sono disorientati. Hanno paura di se stessi, del futuro, perfino di un’interrogazione a scuola. Vivono un’altalena emotiva che illude e poi lascia il vuoto”.
Il rischio più grande? L’omologazione. “Oggi vince chi appare più forte, più bello, più tutto. Ma così si perde il senso. Si cerca l’approvazione degli altri e si smarrisce la propria identità”.
Don Ezio però non si limita alla sacrestia o all’oratorio per stare accanto ai giovani: parla anche il loro linguaggio, quello dei social. Il suo canale TikTok è seguitissimo: qui lancia reel e pillole di speranza, veri e propri messaggi di vita quotidiana e cristiana che toccano il cuore. Don Ezio è il segno tangibile di una Chiesa che comunica con empatia, senza giudicare, ma provando a camminare al passo dei tempi. E soprattutto, al passo dei ragazzi.
Cosa può fare, allora, la Chiesa? E cosa le comunità? “Servono comunità educanti: famiglie accoglienti, scuole che ascoltano, parrocchie vive, associazioni vere. Serve un contesto in cui i ragazzi si sentano protagonisti, non spettatori. I nostri giovani hanno bisogno di sentirsi parte di qualcosa che cambia davvero il mondo”.
Il volontariato, il servizio, la vita di comunità: per don Ezio sono tutti strumenti di costruzione identitaria. “Se un giovane sente di essere utile, di portare bene agli altri, cresce anche nella propria interiorità. Non ha bisogno di apparire, perché già sa di valere”.
In un tempo segnato da conflitti — internazionali e quotidiani — don Ezio lancia un appello ai giovani: essere costruttori di pace, partendo da sé. “La pace non è solo l’assenza di violenza. È costruzione quotidiana di relazioni autentiche, giuste, solidali. Non puoi portare pace fuori, se dentro hai rabbia o caos. La pace comincia da te: da come parli, da come reagisci, da quanto sai perdonare. Anche te stesso”.
Essere giovani oggi, secondo lui, è anche un atto di coraggio controcorrente: “Non lasciarsi travolgere dal cinismo, non arrendersi all’idea che nulla cambi. Sperare è un verbo rivoluzionario”.
Parroco di un paese dell’entroterra, don Ezio conosce bene la fatica delle piccole comunità. Ma non ci sta a vederle come luoghi di abbandono. “Anche le aree interne possono diventare spazi di speranza, se si smette di guardarle come periferie. Serve una Chiesa che sappia stare accanto, che valorizzi i giovani, anche là dove i preti sono pochi e le comunità invecchiano. Serve il coraggio di dare fiducia ai laici, agli educatori, a chi accende sogni”.
La sfida, conclude, è far capire che “nel piccolo si può essere grandi”. Che non serve andare lontano per trovare un senso: “Lo si può costruire anche qui, in questi luoghi dove il tempo respira. Ma ci vuole amore, e il coraggio di esserci davvero”.